Cosa successe di così inconcepibile in quell’inizio di decade che ancora era l’atto finale della precedente, in quel 1970 che conteneva moltitudini umane, rimpianti di un significato smarrito e promesse di un futuro radioso e fuori dagli schemi? La vita era davvero tutta in quell’immagine di sé trainata dal sogno di quella generazione o quel fragile scrigno di cristallo che conteneva uno slancio destinato ben presto a essere poltiglia, si era come sparso in frantumi provocando una sorta di sisma umano?



Un collasso geografico di proporzioni immense. Ecco, forse fu un’anomalia di questo tipo – ammesso che qualche spiegazione sia possibile – a dare impulso alla nascita di nuovi strani fenomeni, persone, anime e cuori nati dal fondo di quella poltiglia, così improduttiva se confinata in quella fragile epoca del facile entusiasmo, così fertile e genitrice di inesauribili promesse resuscitate se scaraventata nel vecchio mondo e restituita all’America da quello stesso vecchio mondo, quel mondo incerto e orfano del profondo significato di sé.



In quel vecchio mondo, in quel 1970 di qualche sterminata latitudine a tre vite di miglia da quel fenomeno, da quella nube benefica di poltiglia, doveva prender forma il primissimo magma di cuore e muscoli di Francesco “Frank” D’Acri se è vero che la sua vita di storyteller in note ha raccolto quel grido, quel last cry che non è mai l’ultimo perché neppure un grido assordante basta mai né al senso di sé né a quello dell’umanità tutta.  E lui da milanese dell’estrema periferia ovest recisa tra desolazione quotidiana e urbanistica spiattellata senza falsi pudori, si è visto trapiantato in faccia alle prime scollinature del varesotto per quegli strani incontri che incrociano diverse umanità rivoltando vite e destini. 



Così nasce un vero musicista rock‘n’roll? Difficile dirlo, resta il fatto evidente che sorpreso negli anni delle prime uscite tra Legend 54 e music hall in riva ai bastioni, ce lo siamo ritrovati con un lavoro d’esordio targato 2011 (quel Che Cosa Sei già recensito a suo tempo su questa pagine da Paolo Vites) che racchiude una prima sintesi di quel patrimonio d’incontri ed esperienze sul campo.  In quei solchi il nostro si è fatto carico di andare a ripescare quel luccichio argentato sotto la cenere di quei sogni distratti e abortiti per generarne una nuova inquieta creatura, nata forse come parto non voluto se non frutto di abiezione, ma che interroga e strugge come vita presente, come interrogazione alla quale dobbiamo rispondere tutti personalmente.

Un disco che assomma r’n’r sporcato di r’n’b, coralità pop, rock robusti o più intimi benedetti da chitarre ora di un west coast più fumante (Vivo) ora più sospirato (le nostalgie insanabili di Passione) ora contaminato con le vie seriali del mainstream rock nostrano (Tempo al Tempo), fino ad approdare alle scorribande fiatistiche di una Speranza in odore di Tenth Avenue Freeze Out e ad una straripante Sogni che si ciba delle istanze più vive, inquiete e creative che hanno scolpito quattro decadi di quella musica.

Il concerto tenuto al music bar milanese To Tap il 18 gennaio scorso, sesto di una serie indefinita di one man concert denominata Anplagghed Scio’ (sorta di personalissimo never ending tour del songwriter altomilanese) rivela questo e altro dell’inesauribile bagaglio di esperienze e sconfinamenti musicali di Frank.  Un locale stretto in pochissimi metri – dove la distanza tra il bancone del bar e l’angusta area destinata all’artista può essere tranquillamente coperta dalla lunghezza di funivie da modellismo o da trame ardite di ragni intraprendenti – impone la via agile della esibizione chitarra acustica, voce e armonica incorporata.  Una lunga serie di brani che con il passare del tempo si fa interminabile per una durata di circa 130 minuti, forse un record per esibizioni di questo tipo.

D’Acri parte deciso, gioca, svolta, gigioneggia e rivolta la platea, fa tracimare ugola e corde, snocciola una serie di classici balzando sui possenti destrieri di Springsteen, Dylan, Van Zandt, Cash e annessa congrega di padri putativi e santi spiriti del rock e del folk, alternandoli a brani propri vecchi e nuovi, rilasciati e rilasciandi.  Scorrono If I Needed You, The Promised Land, Hard Times, Forever Young fino alla rutilante intensità di quell’autentico heartbeat in note di Thunder Road.

Il canzoniere personale annovera una serie di brani che includono fra gli altri Non basta il cielo, una bellissima dedica in arpeggi al nuovo venuto di casa D’Acri intitolata Piccola stella e l’epica novella suburbana de La voglia di cambiare.  Gli estratti dall’album d’esordio si limitano agli episodi più idonei all’instant transfer in acustico e le pragmatiche e risolute Che cosa sei  e Tu mi chiedi rispettano le consegne in pieno.

Certo alcuni dei bellissimi brani non eseguiti sembrano giustificare la loro mancanza nella indole sonora da band che li contrassegna, nella ricchezza irrinunciabile degli arrangiamenti, dei contrasti, di spinte e controspinte rese al meglio dal concerto eseguito in formazione.  Ma è altrettanto innegabile che il nostro possiede il dono di far propria e di far rivivere quella che è squisitamente prerogativa dei grandi.  Fare formazione creando un gioco di rimandi, segni e intese con l’audience. Si direbbe una formazione a condizione di reciprocità e senza costi aggiunti come la più saggia e lungimirante delle spending review.

Ecco allora la struggente chiamata a raccolta di Streets of London, l’intensità viscerale di No Surrender, i divertissement ad ampia interazione di Guantanamera e Only You, fino alla scoppiettante e incontenibile 16 Tons che insegue i deliri più sanguigni e istrionici di Cash.  In mezzo a tutto questo una irresistibile John Henry che si avvale di un divertito e divertente duetto con un bravo armonicista in veste di ospite.  E su tutto la sua voce possente sempre più precisa, dettagliata e narrativa come mai prima.

Una condivisione che sfonda il muro della complicità a scadenza giornaliera e che coinvolge una combriccola di cuori affamati e viandanti. Dall’amico/collega rocker di strada, al canadese ieratico e navigato di stanza nello stivale, all’alto e allampanato professionista appassionato di musica a trecentosessanta gradi, all’instancabile collettore di richieste di bis direttamente dalla working class, alla bionda e fascinosa frequentatrice springsteeniana a tempo pieno. Un’istantanea a cura di quest’ultima centra perfettamente la scena dell’evento e dell’artista, ritratto sotto una luce rosso fosforescente che sembra vederlo  in azione all’interno di un ampio e fumoso locale newyorchese.

E forse è proprio così tanta è la forza, la statura e la spiccata personalità che il nostro sprigiona dalla sua plancia di comando dalla quale emerge quasi gigantesco, come dotato della capacità di aumentare a dismisura le dimensioni del locale che ci ospita.  E c’è chi ha giurato e spergiurato di aver visto verso la fine aleggiare dal fondo del locale il fantasma di Humphrey Bogart con tanto di impermeabile, avvolto dalla bruma invernale e di avergli sentito sussurrare “play it again Frank”.