“Queen of Denmark” (2010): imperdibile. “Pale Green Ghosts” (2013): controverso. Per rendere l’idea mi sono avvalso dell’indicatore sintetico che gli amici dei Sentieri del Cinema utilizzano abitualmente per recensire i film. Una scala di valutazione che va da Meglio Evitare a Imperdibile. Nel mezzo si va da Mediocre a Consigliato a Interessante. Il giudizio è immediato e di facile comprensione, un’ottima misura di guida alla visione. 



E Controverso? Il “regista” in questione è John Grant e “Pale Green Ghosts” è il suo nuovo album uscito in questi giorni. Quello stesso Grant che tre anni fa ha pubblicato il suo primo lavoro “Queen of Denmark”, album dell’anno 2010 secondo l’influente rivista specializzata Mojo (lo scrivente concorda e sottoscrive la valutazione al pari di “The Courage of Others” dei Midlake che proprio nel disco di Grant facevano da gruppo di accompagnamento). 



Il nuovo lavoro ha pochi aspetti in comune con il precedente. Le musiche subiscono una sferzata secca di genere che porta ad uno sbalzo di dieci anni: dagli anni settanta si passa a piè pari agli ottanta. Le atmosfere armoniose e melodiche del disco precedente si trasformano e virano verso suoni synth-pop, dance ed elettronici. Dal caldo afoso del Texas si passa al freddo gelo dell’Islanda. Pertanto congedati i Midlake, John Grant ha registrato l’album a Reykjavík avvalendosi della collaborazione di Biggi Veira del collettivo elettronico islandese Gus Gus e di altri musicisti locali. Inoltre all’incisione ha partecipato con la sua voce anche Sinead O’Connor che recentemente ha impreziosito il suo ultimo lavoro in studio “How about I be me (And you be you)?” con la cover della title track di “Queen of Denmark”. 



L’ascolto dei primi due brani in sequenza spiazza. Pale Green Ghosts e Blackbelt procurano un senso di smarrimento e di sconcerto: una controllata al lettore MP3 o alla copertina del cd è doverosa per verificare la corretta selezione del supporto. Ma non si stanno ascoltando né i New Order e nemmeno i Depeche Mode. La precisazione sembra banale ma è invece necessaria. Del resto sono passati ben oltre dieci minuti e di John Grant non si riconosce nemmeno la voce. 

Pale Green Ghosts è il primo singolo uscito. Lungo e in apparenza sconnesso, non conquista all’ascolto. La canzone parla della volontà di scappare da una piccola città per andare nel mondo, diventare qualcuno e di lasciare il segno. Nella biografia sul sito della Bella Union (la sua casa discografica), John Grant racconta che negli anni ottanta era solito prendere l’Interstate 25 per andare in discoteca e che tra Denver e Boulder l’autostrada era fiancheggiata da piantagioni di ulivi russi (le pale green ghosts del titolo) le cui piccole foglie argentate diventavano luminose al chiaro di luna. Che bell’immagine.

Invece se camminando per strada con la coda dell’occhio intravedete qualcuno con i cuffioni che batte il tempo ondeggiando la testa oppure se sentite della musica diffondersi dagli altoparlanti di una macchina di passaggio con i bassi che pompano, è possibile che quei qualcuno stiano ascoltando Blackbelt, la Blue Monday di Grant. 

La terza traccia GMF, appassionante e drammatica, ci riporta nel terreno già battuto di Queen of Denmark. Non tutti i brani sono di fresca composizione. Sin dal suo tour del 2011, Grant è solito includere nei suoi set Vietnam e You don’t have to, incisioni entrambe non memorabili. Anche Why Don’t You Love Me Anymore è ripetitiva e non propriamente degna di nota.

Il suono del Moog, già esplorato in passato, è stabilmente presente nel nuovo lavoro. Vietnam e It doesn’t Matter to Him sono impreziosite dal contributo di Smith McKenzie e di Paul Alexander, la sezione ritmica dei Midlake, ed il suono è quello nuovamente familiare.

L’album è ancora una volta autobiografico. Si ritrova l’infanzia difficile legata alla sua omosessualità vissuta in un paese della provincia americana, piccolo e bigotto. E ancora il contesto religioso e familiare ostile, il sesso e la sessualità. E quindi la solitudine, la curiosità e l’irrequietezza che lo ha portato nel corso degli anni a girovagare da Parker (Colorado) a New York passando per Londra e Berlino fino a Reykjavík dove attualmente ha stabilito la sua dimora. John Grant è uno che ha vissuto tanti momenti complicati e dolorosi (tra cui la liberazione dalle droghe e dall’alcool), passaggi forse necessari per arrivare a questa maturità compositiva e artistica. I testi e le esecuzioni riflettono i toni malinconici e dolorosi ma anche scherzosi e vivaci. 

I suoni si fanno nuovamente estremi in Sensitive New Age Guy e in Ernest Borgnine. In particolare Sensitive New Age Guy potrebbe benissimo essere utilizzata come traccia test per verificare l’affidabilità dell’impianto stereo di casa. E’ un brano da discoteca che spacca, in un ipotetico video si può immaginare la star Madonna, in abiti succinti, che prende per mano un omone, John Grant, e lo accompagna in pista per un ballo sfrenato. 

Per gli amanti del primissimo Grant, difficile da seguire in queste escursioni sonore. 

Davvero notevole la conclusione. I Hate this Town è un brano estremamente piacevole. Glacier è l’apice del disco. L’artista di Denver, accompagnato da Chris Pemberton (musicista di supporto in tour) al piano, ritrova la sua voce. Quella voce calda, avvolgente e piena, che già conoscevamo sua, ha il pregio di rendere ogni brano interpretato delicato e drammatico nello stesso tempo.

 

Sarà curioso vedere la reazione del pubblico e per questo non bisognerà attendere molto visto che l’ex leader dei Czars sarà di nuovo in Italia in tre occasioni ad aprile: l’11 al Teatro Franco Parenti di Milano, il 12 al Parco della Musica di Roma e il 13 all’Antoniano di Bologna.

Questo lavoro in studio avrà il pregio di far conoscere la musica di John Grant ad un numero più ampio di ascoltatori, diffondendola anche tra i più giovani. Gli appassionati della prima ora invece capiranno e gli rinnoveranno la fiducia.

A 43 anni John Grant ci consegna un album ambiguo, nei testi e nelle musiche. In attesa che ritrovi se stesso, non lasciatevi sfuggire questo lavoro controverso di un artista imperdibile.