Non è detto che sia logico e coerente, ma trovo ci sia un filo conduttore che lega insieme musicisti sostanzialmente illogici e fuori dal mainstream e che rispondono al nome di Mark Eitzel (American Music Club), Kurt Wagner (Lambchop) e Stuart Staples (leader dei Tindersticks). Cosa li lega insieme, almeno nelle mie percezioni? Una certa insolita eccentricità rispetto al loro mondo di riferimento, una produzione che anche quando non è eccelsa è comunque ricca di spunti artistici interessanti e di un viscerale amore verso i nomi pop-rock piu anarchici, Tom Waits in testa. Tutte queste caratteristiche si ritrovano puntualmente anche in Mark Everett, vale a dire il musicista che abitualmente si cela dietro il nome della rock band (se cosi si può definire) degli Eels.



Il nuovo disco degli Eels, “Wonderful Glorious”, arriva dopo circa tredici anni di onorata carriera ed è uno dei più belli incisi da Everett (da sentire ci sono assolutamente il tragico “Electro Shock Blues”, il drammatico “Blinking Lights and Other Revelations “e il magnifico “Live at Town Hall”), musicista poliedrico che abitualmente si circonda di band e strumentisti vari, in grado di assecondare i suoi momenti ispirativi più vari, dalle influenze garage alla musica da camera. I dischi degli Eels sono spesso autentici racconti assortiti di dolori e morti, di depressioni e annullamenti, ma non nel senso veemente a cui ci avevano abituato Billy Corgan e gli Smashing Pumpkins: Everett, figlio di uno dei più celebri fisici-matematici del 900,  è più un songwriter secondo la definizione classica del termine piuttosto che un rocckettaro. Scrive canzoni semplici, sempre con un senso melodico chiaro e definito, e le arrangia limando e togliendo, lasciando l’essenziale e aggiungendo ingredienti accattivanti e non previsti. 



Così questo nuovo album contiene canzoni che lasciano intravvedere una luce in fondo all’oscurità, suggerendo modulazioni funky (Kinda Fuzzy) oppure blues-rock (New Alphabet) mentre altrove (On the Ropes) sfodera gioiellini country-pop che sarebbero piaciuti sia ad un fuori quota come Lowell George che anche ad un capostipite come Paul Simon. La sua caratteristica, come quella dei primi citati in questo pezzo, è l’assoluta personalità: una canzone degli Eels è inconfondibile, sotto ogni latitudine, pur nei suoi 180 secondi di durata, visto che la lunghezza media dei suoi prodotti è proprio questa.



“Wonderful Glorious” è un disco di discreto equilibrio, non più come nel passato cupo e zeppo di abissi e voragini rivestite di suoni morbidi e normali; nei suoi ritornelli ogni tanto si affaccia non solo malinconia, ma anche un quasi tiepido ottimismo (molto mascherato, visto che anche la canzone che da titolo al disco è mezzo seria-mezzo sarcastica). Ma in ogni caso Everett non si smentisce e quindi non strano che il brano più tosto, una ballata bifronte di nichilistica mancanza di radici, è The Tournaround, roba da esistenzialismo francese, qualcosa che ricorda il Dylan di One Too Many Morning (nel testo) e Cave nell’elettrizzante seconda parte di canzone, dove l’incerto incedere diventa poderoso e aggressiva sferzata. 

In un tempo in cui anche i Muse, la band dello spleen cosmico, arrivano negli stadi e s’ammorbidiscono, il buon Mark prova a mettere un sorriso nel suo sound, ma dietro la smorfia rivela ancora una volta il suo  guizzo nervoso e sradicato, feroce come una metropoli inquinata. Non a caso, a ben guardare, sulla cover del disco c’è un aereo che bombarda la civiltà sottostante…