E’ paradossale che uno dei più grandi songwriter di questo secolo abbia atteso così tanti anni prima di pubblicare un disco interamente a suo nome. Eppure Johnny Marr, che assieme a Stephen Morrissey ha dato vita agli Smiths e ha fatto parte della più formidabile coppia di autori musicali dai tempi di Lennon/McCartney, al traguardo dell’album solista non era ancora arrivato. Paradossale anche pensando al fatto che il suo illustre collega, che è sempre stato quello che le idee le sviluppava, non quello da cui scaturivano, si è imbarcato da anni in un’avventura di tutto rispetto, pur tra inevitabili alti e bassi.
Marr, viceversa, (uno che senza il suo modo di suonare la chitarra gente come Blur e Oasis non ci sarebbe mai stata), dopo lo scioglimento degli Smiths si è sempre barcamenato in mille progetti, ma non è mai riuscito ad intraprendere qualcosa che fosse costruito per durare. Al di là delle numerose collaborazioni (Pet Shop Boys, Talking Heads, Beck, Brian Ferry, tanto per citare i nomi più blasonati), il suo curriculum musicale post 1987 è denso di tentativi abortiti. Alcuni interessantissimi (su tutti, il progetto “Electronic” messo su assieme a Bernard Sumner dei New Order nei primi anni ’90), altri parecchio deludenti (Modest Mouse, ma anche le cose realizzate sotto il monicker “Johnny Marr and the Healers”).
Oggi, quando stiamo per celebrare il trentennale dell’uscita di “Hand in glove”, ecco che il chitarrista si presenta sul mercato con un disco nuovo di zecca; un disco che in copertina porta il suo nome e cognome, niente altro.
Tanti anni di attesa, per dire che forse questa è la cosa migliore che abbia mai fatto. Il rock nervoso di “The right thing right” ci avvolge immediatamente, facendo partire il viaggio con il piede ben pigiato sull’acceleratore. La sua voce è calda e solida, da cantante navigato, anche se forse il mix definitivo l’ha tenuta un po’ troppo dentro gli strumenti. Per il resto, il lavoro di chitarra è grandioso come sempre e va ad impreziosire canzoni ben scritte, che hanno nell’immediatezza il loro punto di forza.
E’ proprio la combinazione vincente tra i suoi celebri fraseggi di Rickenbacker e delle linee vocali azzeccatissime, a dare la spinta decisiva ad un lavoro che è bello dalla prima all’ultima nota.
Intendiamoci: musicalmente parlando, niente di nuovo sotto il sole. Le dodici canzoni parlano il linguaggio del rock inglese degli ultimi decenni, dalla New Wave al Brit Pop, ma non per questo suonano stanche o già sentite.
Colori generalmente scuri, come nel bianco e nero della copertina e nel video della title track, dove lo si vede camminare spedito in mezzo ai boschi. Non è però un lavoro malinconico e a parte “The messenger” e la soffusa “Say Demesne” (il brano dove l’elettronica è maggiormente presente), gli up tempo la fanno da padrone e strofe e ritornelli catchy cavano fuori un potenziale singolo da quasi ogni episodio: alla fine la scelta è ricaduta sulla saltellante “Upstarts”, ma anche titoli come “I want the heartbeat”, “Lockdown” o “Sun & Moon” avrebbero svolto egregiamente il loro compito.
Il fantasma degli Smiths affiora qua e là ma non è poi troppo invadente: “European me” è forse quella che più ce li ricorda, con un riff inconfondibile che pare ripescato da una qualunque outtake sepolta nei cassetti della Rough Trade. Stessa cosa per “Generate Generate”, una delle tracce migliori, anche se poi le linee vocali vanno in una direzione diversa, molto più “anni novanta”.
A conti fatti, l’unico punto debole sono i testi: impressionisti e frammentari, inframmezzati di luoghi comuni, fanno davvero rimpiangere la pungente inventiva di Morrissey e sono la conferma che in quel particolare campo, davvero in pochi la possono spuntare.
Ci si potrebbe chiedere che bisogno c’era di un lavoro come questo, che guarda così prepotentemente al passato, da parte di un musicista geniale che però vive ancora sulla rendita della sua prima, fulminante fase di carriera. Eppure, di uno come Johnny Marr si sentirà sempre la mancanza e si avrà sempre più che mai bisogno, soprattutto in un momento come questo, dove di certezze nel mondo della musica rock ne sono rimaste poche.
Non è forse un caso che la celebre rivista NME, a suo tempo ritenuta tra i principali responsabili dello scioglimento degli Smiths, gli abbia appena assegnato il prestigioso riconoscimento di “God-like Genius”.
Non c’è nulla di nuovo in questo “The messenger”. Nulla che non sia già stato detto, nulla di cui non si potesse realmente fare a meno. Eppure, da settimane non riusciamo a sentire quasi nient’altro. Che siano insieme o separati, il mondo del rock ha ancora bisogno di Morrissey e Marr. Ora più che mai.