Qualche tempo fa ho letto un libro del grande giornalista musicale inglese trapiantato a New York, Simon Reynolds. “Pop Culture’s Addiction To Its Own Past” , recita il sottotitolo: la dipendenza della cultura pop dal suo passato. Consiglio a tutti la lettura, che approfondisce, ampliandola a diversi mondi di riferimento, una semplice constatazione: il peso del passato – sovralimentato dalla disponibilità infinita di spazio del web – schiaccia la creatività del presente.
Il tema è interessante e meriterebbe molto spazio e approfondimento. Quello che è certo è che non era così in quell’incredibile periodo che va dalla seconda metà degli anni 60 all’inizio dei 70. Diciamo, tanto per delimitare due fragili confini, da “Revolver” dei Beatles a “The Lamb Lies Down on Broadway” dei Genesis. O se preferite da “Pet Sounds” dei Beach Boys a “Led Zeppelin IV”. E potremmo citare a buon diritto almeno una decina di LP che sono rimasti come pietre miliari a segnare il passo della musica a venire.
Non era così, perché i giovani che facevano musica in quegli anni volevano sperimentare nuove strade, lasciandosi alle spalle il mondo di chi li aveva preceduti – almeno apparentemente, perché certi grandi maestri rimanevano comunque nella coda dell’occhio. Talvolta si andava così veloce da schiantarsi tragicamente contro un muro. Talvolta – in realtà spesso – nascevano veri e propri capolavori.
Proprio nel bel mezzo di questi incredibili anni si pone l’uscita di “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd. Primo marzo negli Stati Uniti, 24 marzo nel Regno Unito. Anno Domini 1973. Il conto è presto fatto: sono quarant’anni tondi tondi.
Qualche dato statistico, tanto per chiarire: è un album che è rimasto ininterrottamente in classifica per 741 settimane, dal 1973 al 1988 e ha venduto approssimativamente 50 milioni di copie. Tecniche di registrazione all’avanguardia, tentativi – anch’essi avanguardistici – di dare al suono (almeno live) una profondità inaudita grazie alla quadrifonia, la sapiente mano del giovane ingegnere del suono Alan Parsons, gli studi di Abbey Road, dove i Beatles avevano piantato le tende, levandole definitivamente circa tre anni prima. Questi gli ingredienti di un disco che trapassa i confini di tempo e spazio e arriva a noi puro, come accade ai grandi lavori, ascoltabile e apprezzabile oggi come il giorno dopo l’uscita.
È un concept album, cioè un LP basato su un’unica idea: esplorare la natura dell’esperienza umana, mettendone in luce diversi aspetti, quali i conflitti, il passare del tempo, l’avidità, la morte, la pazzia. Il disco si apre e si chiude con il battito del cuore umano, e ogni facciata del disco è un unico brano continuo, un caleidoscopio di voci, suoni, effetti, synth analogici, chitarre elettriche (spesso suonate con il bottleneck e la tecnica slide, scivolando sulle corde), senza dimenticare naturalmente basso e batteria e le voci, non solo quelle di Waters e Gilmour, ma anche quella di Claire Torry nella celeberrima The Great Gig in the Sky.
Nota di costume: la vocalist, pagata per il suo turno di registrazione 30 sterline dell’epoca (paragonabili a 300 di oggi), nel 2003, forse in ristrettezze economiche, fece causa ai Pink Floyd, ritenendosi co-compositrice del brano, e la ebbe vinta, anche se non si conosce l’entità del risarcimento.
In quegli anni sarebbero usciti anche “Thick as a Brick” dei Jethro Tull e il già citato “The Lamb Lies down on Broadway” dei Genesis (ultimo grande contributo di Peter Gabriel, che immediatamente dopo il tour lasciò la band), due fra i più rappresentativi concept album, e in ogni caso i confini della ristretta forma-canzone si stavano allargando. Emerson Lake and Palmer due anni prima avevano registrato dal vivo i Quadri da un’esposizione (“Pictures at an Exhibition”) del compositore russo Modest Petrovich Mussorgsky in chiave progressive rock.
Dischi che segnano un’epoca, lasciando una scia che dura fino ai giorni nostri.
Era impossibile scrivere qualcosa su questo disco senza rifare l’esperienza di ascoltarlo, senza disturbi, da capo al fine, in cuffia. L’esperienza è ancora oggi consistente. Pensare ad un disco così complesso, registrato con i mezzi di allora, in cui quello che si suonava era suonato davvero e si imprimeva su un nastro – non su dei bytes modificabili a piacimento – è davvero strabiliante. Oggi ogni ragazzino può avere in casa sua programmi che gli permettono di fare musica, per così dire, ad un livello tecnico che rende i sistemi di registrazione di 40 anni fa simili a dei dinosauri estinti. Eppure quasi nessuno più suona uno strumento e dischi così non se ne fanno più. Meditate, gente.
Ascoltare questi 43 minuti scarsi di fila è come entrare in un mondo magico, un’esperienza sonica che viene da ore ed ore di composizione, prove, registrazioni e ricerca di un risultato perfetto.
Concludo ricordando un episodio che mi capitò, giovane ragazzino di ritorno da un allenamento di pallavolo, quando da una cantina sentii provenire dei suoni. Era una band (una delle tante) che provava dei brani. Quella che stavo sentendo per la prima volta era musica che non avevo mai sentito prima, e mi provocò istantaneamente il desiderio di scoprire cosa fosse, da dove venisse, chi stesse suonando, ma soprattutto chi aveva creato della musica così. Ci misi qualche mese, ma alla fine lo scoprii. Era Shine on You Crazy Diamond, brano-suite dei Pink Floyd tratto dal successivo “Wish You Were Here”. Che torni anche oggi una curiosità così, oggi che tutto è immediatamente a portata di click, è la speranza. Perché si possa ancora ideare e creare qualcosa che duri e non solo fast-food-music.