Quanto rumore in questo mite pomeriggio di marzo, il primo, ieri. Lucio Dalla se n’è andato un anno fa e tutti fanno a gara oggi per ricordarlo, per raccontarlo, per omaggiarlo con la sua stessa musica. E invece io, come una stupida, sono qui che aspetto ancora che Lucio si svegli: sembra impossibile che quel suo cuore pulsante abbia smesso di battere, che quella sua voce graffiante piena di vita non possa cantare mai più.
Restano i dischi, certo. Resta l’immagine di un Lucio Dalla con zuccotto di lana in testa e lo sguardo sornione dietro gli occhiali rotondi. Restano ricordi e frammenti come fotografie sparse su un tavolo: “poi uno se ne va, e se ne va per sempre”, l’aveva cantato lo stesso Lucio, una ventina d’anni fa in Don’t touch me (1993), come a volerci avvisare tutti che anche gli artisti sono vittime di quella regola assurda della vita che precede la morte. Ci si consola con quell’idea che lui stesso aveva della morte che è “solo l’inizio del secondo tempo”.
Dà però quasi fastidio adesso il chiacchiericcio degli esperti che s’impegnano a trovare un erede di Lucio Dalla; si fanno nomi e congetture di chi, fra i cantautori di oggi, può essere in grado di camminare a testa alta in quel solco tracciato dal folletto di Bologna. Ci provo anche io ma non riesco, forse perché ancora adesso resto stordita dall’inconfondibile suono di clarinetto con cui Lucio riusciva a fare di una canzone qualcosa di unico e di grande.
Un’impresa eccezionale trovare qualcuno in grado di raccontare le piccole grandi vicende della vita com’è riuscito a fare lui, senza filtri, a tratti senza vergogna e senza ritegno, altre volte con il cuore gonfio di malinconia, con il bruciante desiderio di essere amato, accettato e compreso.
Lucio Dalla per molti è stato un padre, in virtù di quella sua capacità di fiutare il talento in tutti quei giovani che spesso gli capitavano a tiro. Gli riusciva naturale. Ed è così che ha scoperto Ron – amico di una vita, splendido creatore di melodie e arrangiatore sopraffino – e ha reso gli Stadio – sua band di supporto, sin da quelle interminabili session in studio che portarono alla realizzazione dell’album Automobili (1976), ultimo atto della trilogia Dalla-Roversi – uno dei gruppi più solidi nel panorama della musica italiana. Senza il suo entusiasmo probabilmente mai avremmo avuto la fortuna di godere delle felici intuizioni di Samuele Bersani o di recuperare l’amore nei confronti di un artista come Gianni Morandi, che ad un tratto pareva perso per sempre.
Un erede vero e proprio di Lucio Dalla però non sembra essere ancora nato e probabilmente non nascerà mai: Lucio è destinato a restare unico. Il cantautore non cantautore, il jazzista con la passione per la musica leggera e per l’opera lirica, il piccolo grande uomo con mille contraddizioni sempre alla ricerca di Dio, l’artista che non riusciva a star fermo un attimo, l’uomo che se ne fregava dell’etichetta e delle chiacchiere dei benpensanti, il cantante abituato a lasciare sgomento il pubblico con i suoi acuti dissacranti. Chi mai sarà in grado oggi di riassumere in sé tutto questo? Una risposta non c’è. Resta la musica, restano le storie da lui raccontate e in cui ognuno – almeno una volta – si è ritrovato.
Sembra banale, sicuramente retorico eppure estremamente vero, ma Lucio resterà vivo tutta la vita a far suonare un pianoforte, lasciandoci dentro anche le dita (…), al centro della confusione o dentro il palmo di una mano.
(Roberta Maiorano, autri del libro su Lucio Dalla: L’uomo che sussurrava al futuro)