Ricerca che sta già scatenando polemiche e smentite. L’Unione europea con uno studio a cura del Joint Research Centre sostiene che la pirateria musicale, i cosiddetti download illegali di canzoni, non sono un danno per l’industria discografica. La quale prontamente smentisce dopo aver per anni combattuto in tutti modi, anche con l’ausilio dell’Fbi e quindi del carcere, gli scaricatori di brani “a gratis”. Per arrivare alla sua conclusione, lo studio ha analizzato i click su un campione di siti musicali prendendo in esame circa 16mila utenti di cinque paesi diversi: Italia, Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna. Ecco cosa dichiarano nel loro rapporto i ricercatori: “la pirateria musicale digitale non dovrebbe essere considerata una crescente preoccupazione per i detentori di copyright (…). Sembra che gran parte della musica consumata illegalmente dagli individui del nostro campione non sarebbe comunque stata acquistata, anche nel caso in cui non fossero stati disponibili i siti di download illegale”. Di fatto, dicono ancora i ricercatori, il download illegale non “rimpiazza gli acquisti di musica legale in formato digitale”. E’ davvero così? Molti di coloro che scaricano illegalmente usano questo sistema proprio per “testare” la qualità di brani che poi, se gli sono piaciuti o meno, vanno a comprare. Tantissimi altri invece comprano a prescindere i brani dei loro idoli musicali, cioè si va sull’acquisto sicuro. C’è poi una fetta di ascoltatori che non rinuncia al fascino dell’oggetto, sia il cd o addirittura il vinile, infischiandosene del download. Questi ultimi però non sono una fetta molto ricca del mercato, anzi una minoranza ormai. Importante sottolineare poi che lo studio non prende in esame la vendita dei cd, ma solo gli acquisti online con download di brani digitali: è in questo caso che la pirateria non fa diminuir elle vendite, dicono. “Un 10 per cento di incremento di click sui siti di download illegale corrisponde a un aumento dello 0,2 per cento di click sui siti di acquisti legali”. L’industria musicale attacca lo studio: secondo l’Ifpi, l’associazione internazionale dei discografici, nello studio ci sarebbero degli errori significativi. Manca l’analisi delle transazioni economiche, dicono, mentre lo studio si basa solo sui click e sule visite ai siti musicali. Manca poi l’analisi delle varie forme di abbonamento e di streaming sostenuto dalla pubblicità: sarebbero il 30% del fatturato digitale.