Michele Gazich è un artista difficilmente etichettabile: violinista di prim’ordine, cantautore, poeta dell’anima. Il suo strumento ha regalato note e vibrazioni a molti artisti di grande spessore, ben noti a chi apprezza il cantautorato d’oltreoceano (Eric Andersen, Mark Olson, Michelle Shocked, Mary Gauthier) e quello nostrano (Massimo Bubola, Massimo Priviero). Alla fine del 2008 decide di prendere il largo con la sua Nave dei Folli, un progetto affascinante che lo vede comporre canzoni (interpretate da una voce femminile) in grado di unire classico e moderno, due concezioni della musica all’apparenza inconciliabili. I suoi brani, oltre a una cornice musicale decisamente originale, possiedono una profondità lirica e poetica indubbiamente inusuale nel panorama musicale attuale. Testi che si fanno ancor più confessionali e intensi nell’ultimo album, L’imperdonabile, che lo vede scendere dalla nave per proseguire il cammino da solo, alla ricerca di un punto d’incontro tra la dimensione terrena e quella spirituale.
Verso Damasco (FonoBisanzio) è un bellissimo box (cd, dvd e libro) che riassume il suo percorso artistico, un concerto tenuto lo scorso anno all’interno della rotonda romanica del Duomo Vecchio di Brescia. Accanto a lui il bravo e inseparabile Marco Lamberti (chitarra, bouzouki, pianoforte) e Francesca Rossi (violoncello). Nel dvd, oltre a due canzoni in più rispetto al cd, c’è un breve documentario a cura di Luca Barachetti che racconta, tramite le interviste ai “protagonisti”, la genesi e il significato di alcune canzoni. Parlare con Michele è sempre un piacere, le sue parole illuminanti ci aiutano a capire molto del tempo in cui viviamo.
Con Verso Damasco si chiude una fase importante del tuo percorso artistico. Nel cofanetto si concentrano cinque anni di ispirazione e grande creatività. Oltre ai tre album con La Nave dei Folli, nel 2011 hai realizzato L’imperdonabile, che personalmente considero il disco della svolta, un’apertura verso nuove modalità espressive. Tutto merito della tua voce, in grado di sorprendere e regalare emozioni. Per la prima volta, infatti, hai deciso di cantare le tue canzoni. Tutto è nato da una pressante urgenza di comunicare?
La Nave dei Folli è stata una band-laboratorio, anomala, aperta, un crogiolo, un continuo esperimento: basti pensare che nessun album è stato registrato con la stessa formazione… Ho molto amato quel progetto. Quasi tutte le canzoni erano interpretate da una voce femminile: mi attraeva, allora, questa surreale spaccatura tra la mia scrittura maschile ed espressionista e la voce femminile, usata con delicatezza sognante; come ricorderai, dichiaravo di non voler essere cantante. Ma ora viviamo tempi duri, in tutti i sensi: “The dream is over”, come diceva Lennon, non c’è più tempo per il sogno. La mia voce scabra, il mio recitar cantando scuro e declamante mi sembra adesso più adatto per i miei testi: meno belcanto e niente fronzoli per un’urgenza ancora più bruciante nel dire, che mi ha riportato alla mia voce, guidando verso il porto La Nave dei Folli.
Hai definito “Concerto spirituale” la tua esibizione nella suggestiva cornice del Duomo Vecchio di Brescia dello scorso maggio, una testimonianza importante che ci ha regalato il cd e il dvd di questo cofanetto. In effetti è molto difficile catalogare la tua musica: sei un cantautore – anche se so che rifuggi da questa etichetta –, sei un musicista classico, ma in tutto e per tutto un poeta della vita, della ricerca: i tuoi testi sono colpi al cuore, stimoli ad approfondire, ad andare avanti, a non arrendersi. Partiamo dalla canzone simbolo dell’intero concerto, Verso Damasco, nella quale il “viaggio” di san Paolo assume valenze universali ed è un monito per l’umanità intera: non si vive senza amore, ed è proprio attraverso questo nobile sentimento che possiamo avvicinarci a Dio. Un Dio che va cercato “nelle crepe dei centri commerciali”, perché oggi, più che mai, è in atto una “guerra civile”?
Credo che chi mi segue ami l’assenza di artefazione da parte mia e dei meravigliosi musicisti che collaborano con me: Marco Lamberti, “il Maestro dell’anima” e Francesca Rossi, “l’Alchimista che tramuta il suono in luce”. È tutto vero: è carne, è vita, è amore. Paolo ci dice, nella Prima Lettera ai Corinzi, che possiamo parlare la lingua degli uomini e quella degli angeli, ma se non abbiamo l’amore non combineremo nulla. Damasco è una condizione esistenziale: la disponibilità ad arrendersi all’amore. La Damasco di oggi, inoltre, è luogo di guerra, un’altra stazione di dolore per il nostro Occidente, che sembra essere capace solo di “bombe intelligenti per donne con il velo”, il nostro Occidente che, periodicamente ma con costanza, tenta di soffocare la propria radice in campi di concentramento o nella violenza dei soldi. Il mio messaggio è insieme spirituale e civile: la mia “Guerra Civile” nella quale “Dio sopravvive nei dettagli / nelle crepe dei centri commerciali” è oggi più immediatamente condivisibile, molto più di quando scrissi la canzone, nel 2007. Le crepe dei centri commerciali sono ora sotto gli occhi di chiunque.
“Preferisco sussurrare parole pesanti anziché urlare parole leggere”, hai affermato in una recente intervista: devo dire che ci riesci benissimo, con una delicatezza e un’intensità che difficilmente si possono riscontrare nella musica di oggi. Amore, espressione artistica – quella che trascende la nostra quotidianità – e ricerca si fondono e si completano a vicenda, rappresentando le tre coordinate entro le quali si muovono e si intersecano le tue canzoni. Puoi confermare questa impressione?
Sì, naturalmente queste sono coordinate fondamentali all’interno delle quali tento di collocare la mia debolezza: tante volte penso che il mio messaggio non giunga grazie a me, ma malgrado me. Tuttavia, mi ritengo soprattutto un artigiano: ogni giorno lavoro, scrivo, suono e studio, con dedizione. Sono molto lontano dall’idea romantica dell’artista, che opera solo sulle ali dell’ispirazione. Ogni giorno mi metto al tornio – o “dietro al mulo”, come dice Tom Waits – e qualcosa faccio, qualche pezzo di terra lo aro, conservo un’abilità e paradossalmente un sapere, mentre cerco di medicare la mia ignoranza, che rimane vasta. Non c’è giorno in cui io non pensi alla mia opera.
Shekinah – questo il titolo di uno dei brani inediti – è un termine ebraico che indica la presenza di Dio nel mondo, una canzone che da sola rappresenta la summa del tuo percorso artistico. Com’è nata questa composizione?
Shekinah, ovvero della tenerezza di Dio: Dio che si china verso gli uomini. Avevo cominciato a lavorare su questo brano ancora al tempo de L’Imperdonabile, anzi anche prima, ma qualcosa non andava e mi sono dato tempo. Shekinah è stata in lavorazione per un anno e mezzo. Hai visto giusto: può essere considerata una sintesi del mio pensiero umano e artistico. Se uno non ha tempo e voglia per ascoltare altro di me, conShekinah si fa un’idea! L’ho scelta, infatti, come video principale per la presentazione del film-concerto e di tutto il cofanetto Verso Damasco. Vorrei ricordare, a questo proposito, Enrico Fappani, il regista che ha girato in maniera esemplare il film e il documentario, a cura del critico musicale Luca Barachetti, che lo accompagna. Ho lavorato a lungo, oltre che sul testo, anche sull’arrangiamento di Shekinah: volevo che fosse solenne, ma dolcissima, che la mia voce si unisse a quella eterea di Francesca e che la viola e il violoncello quasi pronunciassero altre parole sull’arpeggio elegante della chitarra di Marco. Ciò ha richiesto tempo, anche solo per attendere che fiorisse tra noi tre l’intimità necessaria per suonarla davvero insieme.
Gli artisti, i cosiddetti “imperdonabili”, sono presenti e vivi in molti tuoi brani, a ribadire un concetto che ti sta molto a cuore: sono i grandi poeti i depositari di una conoscenza superiore, della verità, e per questo rifiutati, esiliati dal mondo, che “ama la mediocrazia tranquillizzante dei cuori freddi nel petto”. Cos’hanno rappresentato per te Pasolini, Roth, Celan, Pound e la dimenticata Cristina Campo? A tutti loro si addice la simbologia esplorata in Come Giona?
Il mio invito è a leggerli davvero, a tirarli fuori dalle gabbie, metaforiche e non, e dai pregiudizi. Pensiamo a Pound, al tragico uso politico che è stato fatto del suo nome, nella totale ignoranza della sua opera e del suo pensiero. Pound è stato il maestro di Ginsberg, è citato per nome e cognome in Desolation Row di Dylan, per citare due auctoritates note a tutti. Un mistico dell’amore che ha scritto: “Quello che sai amare / non ti sarà strappato”. Di Pasolini si parla solo per la misteriosa e tragica morte, ma, ancora una volta, non lo si legge: “Sperimentano modi per dividere la verità e per porgere la mezza verità attraverso la voce che contrappone un’ironia umiliante a ogni ideale, la voce che contrappone gli scherzi alla Tragedia, la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti”. Così Pasolini commentava la nascita della televisione, quella televisione per cui Cristina Campo è una dimenticata, una sconosciuta. La buona notizia è che non lo è, amici: la sua opera è pubblicata integralmente da Adelphi, non una sconosciuta casa editrice di provincia, ed è tutta in catalogo. Quando qualcuno legge almeno uno di questi autori grazie a me o malgrado me – ed è successo diverse volte – è sempre una delle mie soddisfazioni più grandi. Celan e Roth sono entrambi sepolti nello stesso immenso cimitero-città di Thiais, appena fuori Parigi: niente di romantico, niente Jim Morrison o Charles Baudelaire, nulla richiama i noti cimiteri parigini degli artisti du Père-Lachaise o de Montparnasse; solo squallida ripetizione inesorabile di morte. Ma le tombe di Celan e Roth sonosegno per Parigi e per l’Europa di oggi in cerca d’identità. Ho composto in memoria del poeta di cultura ebraica Paul Celan Il latte nero dell’alba. I suoi genitori morirono in campo di concentramento, lui si salvò dalla cattura. Visse la parte rimanente della sua esistenza ricordando e con il tormento di essere sopravvissuto, fino a quando – è un caso simile al nostro Primo Levi – si tolse la vita, nel 1970. Lo scorso anno ho eseguito la canzone a Cracovia, dopo aver visitato i campi di Auschwitz e Birkenau e aver viaggiato sul Treno della Memoria con tanti studenti italiani. Concerto intenso e difficile dopo quello che avevo visto con i miei occhi, ma necessario fino in fondo: una sorta di celebrazione comune per una comunità in viaggio.
In un periodo di crisi – non solo economica, ma anche e soprattutto spirituale – canti di amore e misericordia, nel momento forse più buio per la discografia fondi una tua etichetta, la FonoBisanzio. Nella guerra civile di ogni giorno c’è bisogno di una voce come la tua. Quali sono i tuoi progetti? Cosa ci regalerai nel prossimo futuro?
Ti ringrazio per le tue parole e per questa intervista, che mi ha spinto a ripensare e a riguardare in maniera ampia il mio lavoro artistico di questi anni. Ad ogni modo, nel corso del 2013 continuerò a presentare il mio “Concerto spirituale”, ma con un taglio diverso, muovendo dalle poesie e dalla ricerca interiore di Giovanni della Croce: un concerto di invocazioni alla notte e di canti alla luna. In aprile-maggio sarò in tour in Nord Europa con Mary Gauthier, songwriter statunitense con la quale condivido molto: anche Mary utilizza nella sua scrittura parole come “amore” e “misericordia”, che hanno bisogno di essere quotidianamente ricaricate di significato. Condividiamo, pur con formazioni così diverse, un approccio da recitar cantando (o da talkin’ blues, come direbbe lei) al testo della canzone e infine una predilezione per la dinamica e il sussurro. Nel frattempo lavoro – in realtà ci sto lavorando già da un bel po’ – a un nuovo album di canzoni narrative, canzoni che raccontano storie. Storie che mi stanno molto a cuore, perché l’album indaga le mie radici, muovendo dalle memorie che scrisse la mia bisnonna. La storia della mia famiglia si è dipanata tra Istanbul e la Dalmazia, con una parentesi americana, prima dell’approdo in Italia. La costruzione di un suono che desidero filologicamente corretto e legato alle terre di provenienza ha richiesto numerose ricerche sugli strumenti e le tradizioni di questa parte del mondo a cui sento di appartenere e a cui cerco di riappartenere.