Chiariamo subito una cosa: quando si parla di band importanti, di band che hanno contribuito a scrivere la storia di un genere musicale, ogni paragone con il loro passato più illustre e ingombrante andrebbe evitato. Per la verità questa volta sono stati i diretti interessati a tirare in ballo scomode associazioni. “Delta Machine”, attesissimo nuovo lavoro dei britannici Depeche Mode, tredicesimo album della loro lunga e onorata carriera, è stato marchiato ancora prima dell’uscita dall’ingombrante presentazione di Martin Gore, che lo diceva essere sulla stessa falsariga di dischi come “Violator” e “Songs of faith and devotion”. Logiche dunque le reazioni seguite a questa “sparata”. Non tanto quelle dei fan (che tanto, lo sappiamo, ragionano col cuore per cui alla fine bene o male gli va bene tutto. Le date dell’imminente tour non a caso sono sold out da mesi) quanto quelle della critica: esagerati, bolliti, privi di obiettività, prossimi alla pensione, dovrebbero ritirarsi e altre solfe di questo genere, si sono potute leggere online in questi giorni.
E allora permetteteci di dire che, personalmente, credo che questa volta il biondo tastierista/chitarrista ci abbia visto giusto. Non tanto perché questo nuovo parto rappresenti un ritorno alle origini rispetto a quei due multi platinati soggetti. Quanto perché “Delta Machine” rende evidente una volta per tutte, se ce ne fosse stato ancora bisogno, quello che il singer Dave Gahan ebbe a dichiarare un po’ di anni fa: “La nostra è musica bianca, è molto europea e non è fatta per ballare.”
Già, perché quello che negli anni ’80 era considerato il gruppo più importante in ambito electro-pop, si è trasformato nel tempo fino a divenire una band di electro-blues o electro-rock, se preferite. Lo si è avvertito per la prima volta proprio con il famigerato “Songs of faith and devotion”: brani come “Condemnation”, “Judas” o “Get right with me” incorporavano addirittura consistenti influenze gospel (evidenziate dal vivo da una apposita sezione di coriste). Così è stato da allora in poi. Così è ancora di più per “Delta Machine”: il pezzo che ha dato il via a tutto, “Heaven”, che è uscito come singolo già a fine gennaio, è infatti una ballata triste ed elegante, dove l’abbondanza dei beat e dei campionamenti non può nasconderne l’anima blues. E’ anche un brano chiave per capire la cifra del disco, gli orizzonti e le tematiche nel quale avrebbero deciso di muoversi: “Mi dissolvo nella fiducia, canterò con gioia, finirò in polvere, sono in Paradiso”, canta Gahan (splendidamente, ma questa non è una novità) nel ritornello. Sono parole scritte da Gore ma a vederlo nel video promozionale, con la faccia scavata e sofferente ma con l’aria nello stesso tempo di chi è a posto con sé stesso, si capisce che anche lui condivide. L’antifona sarebbe comunque già chiara a partire dall’incipit: “Welcome to my world” (guarda caso) è un brano inizialmente cupo che si apre progressivamente in un crescendo in cui gli archi sono assoluti protagonisti.
Un pezzo che è perfetto per iniziare: aprissero così dal vivo, anche chi l’ha criticato sarà costretto a ricredersi. “Benvenuto nel mio mondo, entra dentro e lascia a casa i tranquillanti, non ne hai più bisogno. Le regine del dramma se ne sono andate, il diavolo è stato sconfitto, ha fatto i bagagli e ha lasciato la città”. L’impressione è proprio questa, che dopo anni di stravizi, dopo essere stati a un passo dalla morte (fisica per Dave, artistica per tutto il gruppo), dopo essere risorti varie volte (lo splendido “Ultra”, del 1997 fu una testimonianza eloquente in questo senso), a questo giro i Depeche Mode abbiano deciso di lasciar perdere i demoni interiori, gli incubi e i fantasmi del passato, per cercare di raggiungere una zona di serenità, dove poter vivere le proprie vite e scrivere la musica che più amano. E se il diavolo è fuggito nel pezzo di apertura, nella successiva “Angel”, incalzante, ritmata e aggressiva come nella migliore tradizione di questa band, sono ben altre le presenze che vengono chiamate in causa: “L’angelo dell’amore era sopra di me e, Signore, mi sono sentito così piccolo. Le mie gambe hanno ceduto e ho iniziato a strisciare (…) Oh, lasciami qui per sempre! Ho trovato la pace che stavo cercando”. E’ un brano tra i più aggressivi del disco, ma una certa vena blues e spiritual è innegabile anche qui
“Delta Machine” non presenta grandi novità, è semplicemente un grande disco, uno dei più belli composti da questa band negli ultimi anni (non che ne abbiano mai sbagliato qualcuno, comunque). E se la copertina, con quella fabbrica colorata di rosso, sembrerebbe giocare con le sensazioni industriali di “Construction Time Again”, non è col passato remoto che i tre di Basildon vanno a flirtare. Musicalmente, siamo sulla falsariga degli ultimi lavori, forse più “Playing the Angel” che “Sounds of the Universe”, per il fatto che l’elettronica è molto più presente e che ci sono molti più brani che spingono sull’acceleratore. Meravigliose, da questo punto di vista, “Broken” (altro potenziale singolo), scritta da Gahan (il cantante in questo album ha dato un contributo molto più consistente che in passato). Melodia circolare e ritornello irresistibile, sulla falsariga di quel grande hit che fu “It’s not good”. Oppure “Soothe my soul”, che mischia sesso e sacralità secondo il miglior stile di Martin Gore e che, venisse eseguita nel corso del nuovo tour, ci immaginiamo già San Siro che salta come un sol uomo. Martellante fino allo sfinimento è anche “Soft touch/Raw nerve” che, perdonatemi ma qui non posso resistere, potrebbe pure diventare la “A question of time” del nuovo millennio.
Insomma, pare proprio che i Depeche Mode abbiano voluto darci dentro davvero in maniera pesante e che abbiano voluto recuperare un certo gusto per le sonorità elettroniche e per i ritmi pop. Ma c’è anche un’anima più lenta, su “Delta Machine”, più cupa, se vogliamo. E’ incarnata in “Secret to the end”, altro meraviglioso contributo di Dave a questo lavoro, un brano che pare carico del rimpianto per un amore finito (“Ti ho deluso? Vorrei credere che sia così, il libro dell’amore non è stato abbastanza per farci vedere attraverso il problema”). Si dipana poi attraverso “Slow”, che vede la chitarra di Martin sporca come non mai, e ancora in “The child inside”, in cui è lo stesso Martin a portare il suo contributo vocale.
Ritornano i temi dell’infanzia infelice e del brusco ingresso nel mondo reale: tematiche affrontate soprattutto agli esordi (basti pensare a “My secret garden” sul secondo lavoro “A broken frame”) e che è forse significativo ritrovare adesso nelle corde di un cinquantenne che ha venduto milioni di dischi e si è tolto ogni possibile soddisfazione. Poi c’è “Should be higher”, altra pop song da manuale, che ha già debuttato dal vivo negli studi di David Letterman e che sarebbe perfetta come secondo singolo.
In giro si leggono parecchie critiche ma lasciatemi dissentire totalmente: “Delta Machine” è un disco splendido, ispirato e coinvolgente come non mai. Ripeto, i Depeche Mode hanno raramente deluso ma questa volta si sono superati. Una band che sta invecchiando con grande consapevolezza e che sta fortunatamente evitando di venire divorata dai propri figli più fortunati (leggasi, i capolavori miliardari di fine ’80/inizi ’90). Come sempre, solo la dovuta prospettiva storica ci potrà permettere di valutare questo disco al meglio. Non penso però di esagerare se azzardo che tra qualche anno questo lavoro non sarà finito nel dimenticatoio. Nel frattempo, ci si vede il 18 luglio a San Siro.