E’ morto Enzo Jannacci. Apprendiamo la notizia proprio mentre ci aggingevamo a pubblicare domani, con misteriosa coincidenza temporale, questo articolo pensato ben prima di sapere della morte di Enzo. Adesso, questo pezzo assume un respiro diverso, nel ricordo del grande autore e cantante scomparso, quasi una dedica alle sue canzoni e alla sua Milano, che solo lui aveva saputo cantare e raccontare così bene. Ciao Enzo: grazie.



Qualche sera fa mi è capitato di passare nel Quartiere Ortica di Milano. Non ci ero mai stato. Io, povero torinese che vive ai confini dell’impero, ai confini di quella ricca ed opulenta Milano che noi, ex sabaudi con un ostinato complesso di inferiorità ci ostiniamo a considerare quasi come il centro del mondo.

Milano non mi è mai piaciuta, la conosco a malapena. Conosco giusto il tragitto per andare da Stazione Centrale a Lambrate e da lì a casa della mia amica, che per me è il vero punto luminoso della città (l’amica, non la casa!).



Eppure, quando sono passato da quelle strade senza niente di speciale, mi sono sentito catapultato in un altro tempo. E ho immaginato un buffo cieco all’entrata di una banca, che aspettava invano che i suoi compari venissero fuori non appena compiuto il colpo del secolo. 

Mi rammarica sapere che quella scena non me la sono inventata ma vien fuori dalla penna più geniale mai comparsa in Italia, quella di uno strano cardiologo, figlio di immigrati meridionali, con una passione smodata per il jazz e un’umanità fuori dalla norma.

Per me Milano è quella di Enzo Jannacci. Probabilmente è solo la proiezione di una città. Non lo so, ma mi piace immaginare che sia così. Per questo, ogni volta che sento nominare il quartiere di Baggio, mi viene in mente un buffo uomo di provincia che “prendeva il treno per non essere da meno e per sembrare un gran signor” e che tagliava i fiori nell’aiuola della fabbrica dove lavorava per regalarli alla sua amata, tanto bella quanto snob ed altezzosa. A Porta Forlanini, invece, mi sembra di vedere uno stralunato barbone fermo vicino ad una splendida decappottabile, al volante un classico cùmenda , implorandolo di portarlo da quella donna meravigliosa, quasi divina, che un giorno aveva visto ad un angolo e che, ironia della sorte, non era altro che una prostituta.



Quello che più impressiona delle canzoni di Enzo Jannacci è come le sue canzoni coprano tutte le gamme dell’animo umano, dall’ironia alla drammaticità più assoluta. Non c’è compromesso nelle sue storie, solo la vita, la vita più vera e profonda, senza mezzi termini. Si passa con una facilità disarmante dal riso, dall’allegria, dal surrealismo alle lacrime. Lacrime di compassione, lacrime di misericordia, lacrime di tristezza.

Sullo sfondo ma sempre in chiara vista, una città che pulsa di umanità, di personaggi d’altri tempi, di uomini e donne veri, tutti d’un pezzo, coi loro sentimenti, anche quando le corde jannacciane si spostano verso il surrealismo più puro.

Ogni volta che passo per la periferia milanese – magari andando verso la mia solita Lambrate – da un momento all’altro mi aspetto di vedere una balera all’angolo, di fronte alla quale sta un ragazzo con gli scarponi da lavoro e il naso rosso di vino, in attesa che una ragazza gli conceda quel ballo e magari “quella cosa che inizia per ba e finisce per cio” per cui sarebbe andato a Como in moto e poi tornato a casa a piedi, tanta sarebbe stata la gioia. Quante volte mi sono sentito come quel ragazzo, totalmente inadeguato e allo stesso tempo così pieno di desiderio di vita e di amore.

Dall’altra parte, invece, mi sembra di intravedere un gruppo di ragazzini coi vestiti scalcagnati darsele di santa ragione, perché la legge è quella di darle via ma è anche quella di buscarle, con la certezza che a casa ci sarà sempre una mamma pronta a pulirti il naso sporco di sangue. 

Camminando per le strade, invece, ogni momento mi pare di poter incontrare da un momento all’altro la Veronica, quella di via Canonica che, a quanto pare, aveva insegnato “il mestiere dell’amore” a tutta la gioventù della zona, quella che diceva di volersi fare monaca ma intanto bestemmiava ogni momento contro i preti. E chissà dov’è finito quell’uomo che, per amore di una donna, aveva buttato giù dalla macchina (non prima di avergli infilzato un coltello con la lama di sei dita nel costato) l’”amato” fratello Armando, quello che lo picchiava di santa ragione col martello. Difficile che sia a San Vittore: aveva un alibi di ferro. A quell’ora, infatti, “era quasi sempre via”! 

E invece, il passaggio a livello dove i due innamorati si sfioravano la mano, prima di essere interrotti sul più bello da un treno merci, oramai si sarà anche alzato e quel treno sarà anche già bell’e che arrivato a destinazione.

Chissà dove sono ora, tutti quei personaggi. Quei personaggi così buffi e improbabili da essere più reali dalla realtà. L’uomo che aspettava Lina sotto la sua finestra, oramai, sarà già arrivato a casa (a piedi, ovviamente, perché di tram non ne passano più). Il pittore che disegnava Madonne sul marciapiede e che era finito al fresco per aver dato del “pirlone” ad un carabiniere oramai sarà uscito di galera e chissà dove sarà. Quante altre volte, invece, ancora adesso puoi intravedere sul metrò la ragazza dal cappotto rosso, che regolarmente se ne va via con uno che non sei tu mentre tu te ne resti lì triste a leggere distrattamente il tuo giornale.

Sono tutti lì, dentro il cuore di una città che non sembra esistere più, sembra essere scomparsa, lasciando il passo alla frenesia di tutti i giorni, ad un mondo borghese che corre senza guardare in faccia nessuno, in un mondo dove “l’amore si fa in tre, di lavoro non ce n’è” e dove l’avvenire sembra solo un buco nero. Sono lì a portare una ventata di umanità, che c’è ancora, nascosta ma pulsante, colonne rocciose ma invisibili che sostengono il mondo.

E sullo sfondo, il Duomo, con la Madonnina che domina Milano, quella presenza che sa essere di conforto persino nei momenti più dolorosi della vita, dove la gente è ancora capace di dare la cosa più profonda di se stessi, le lacrime, per la redenzione delle puttane, degli ultimi, dei più nascosti agli occhi di tutti.

E così, ogni volta che parto dalla mia Torino per arrivare in quella città dove “ci sono automobili di tutti i colori, di tutte le grandezze, piena di luci che sembra sempre Natale, dove anche dal cielo sembra che piovano biglietti da mille” e faccio il mio tragitto per arrivare dalla Stazione Centrale a Lambrate in un modo o nell’altro è come se mi sentissi a casa, anche se non mi fermo in un ristorante economico a mangiare solo minestra, facendo a meno del vino, per risparmiare.

Perché, anche se tutto è cambiato, se tutto sembra passato, il mondo di Enzo Jannacci continua a vivere e a dispensare la sua ombra bella e triste sulle cose che stanno tutte attorno.

 

(Gabriele Gatto)