Sono giorni di celebrazioni, tra omaggi, concerti e ricordi, pensieri e parole con poche omissioni. Un anno fa se ne andava Lucio Dalla, e ancora non ci siamo fatti una ragione di quel tragico scherzo del destino che ci ha privati di una delle voci più originali e pure del panorama musicale italiano. Avremmo preferito festeggiare come si deve il settantesimo compleanno insieme a lui, cantando in coro in piazza grande il 4 marzo ’43, data ormai ufficialmente registrata sul libro dell’arte e della cultura nostrana. E pensare che, sempre in quell’anno di bombe e crateri, appena un giorno dopo – il 5 marzo, appunto – in un paesino della provincia di Rieti nasceva un altro Lucio, che di cognome faceva Battisti. Anche questo sembra un segno del destino, due geni assoluti della nostra musica (a giudizio del sottoscritto “i” due geni assoluti) che quasi condividono il genetliaco e un posto più o meno grande nel cuore di tutti noi. Perché non esiste nessuno, dico nessuno, che in questo martoriato paese di divisioni, tensioni e disgrazie non abbia mai canticchiato una canzone dell’uno e dell’altro, magari conoscendolo poco, magari anche disprezzandolo, in perfetto accordo con quella dimensione unica che ci appartiene. Battisti e Dalla, due specchi a tratti opposti della nostra tradizione cantautorale, due schegge impazzite difficilmente catalogabili. Perché se è vero che l’etichetta di “cantautore” si addice – pur con le dovute revisioni e correzioni – a entrambi, è anche vero che la stessa definizione, come tutte le definizioni precostituite, si dissolve non appena ci si addentra nei meandri più profondi della loro arte.
Se dell’artista bolognese si è già parlato (e cantato) nei giorni scorsi e si parlerà (e canterà) a più riprese nei prossimi – giustamente, ma anche in modo a tratti inopportuno, mi verrebbe da dire –, del Lucio di Poggio Bustone qualche penna e qualche microfono si sono un po’ dimenticati, complici anche la strategia del terrore adottata dalla moglie, Grazia Letizia Veronese – che punisce a suon di querele chiunque osi toccare una nota del povero marito –, alcuni pregiudizi mai del tutto sopiti – le sue presunte simpatie di destra, come se un artista si potesse giudicare in base alle sue inclinazioni politiche – e quella scelta di vita che al tempo in pochi gli perdonarono, il suo abbandono delle scene – non solo dei concerti, ma anche dei rapporti con la stampa – radicale, se vogliamo anche “violento”, che gli appiccicò addosso la fama di presuntuoso, snob, e chi più ne ha più ne metta.
La verità è che Battisti è stato il più grande innovatore della nostra musica, colui che più di tutti è riuscito ad affrancarla rispetto a una tradizione melodica vecchia e obsoleta, infarcita di un sanremismo ormai fuori tempo massimo, soprattutto in un periodo in cui nel resto del mondo già pulsavano, da diversi anni, nuovi ritmi e nuove vibrazioni. Pur non dimenticando mai la tradizione della sua terra, sin dagli esordi Battisti infarcisce una formula da svecchiare con forti influenze beat e rhythm and blues, diventando nel tempo un punto di riferimento, l’artista più “internazionale” e sperimentale tra gli italiani, affamato di novità, intransigente all’usato sicuro.
In questi giorni la Sony gli rende omaggio – senza i clamori della stampa, anzi, nel silenzio più assoluto – con un cofanetto retrospettivo, settanta canzoni – come gli anni che avrebbe compiuto – spalmate su quattro cd. Ok, direte voi, ma che bisogno c’era della nuova, ennesima raccolta, quando ormai a disposizione ce ne sono un’infinità, tra prime impressioni, avventure con il suo mentore e paroliere Giulio Rapetti, il sodalizio con il filosofo delle lettere Pasquale Panella e via dicendo? A prima vista, nessuno. Ma se guardiamo con occhio attento, scopriamo che questa antologia un motivo di interesse ce l’ha: semplicemente, è la più completa, visto che copre l’intero arco della sua carriera, trent’anni di capolavori assoluti senza soluzione di continuità. E poi il prezzo, contenutissimo, che invita anche gli appassionati più radicali a (ri)spolverare in una sola volta la brillantezza di gemme assolute per riscoprirne il mai dimenticato valore. Non ci sono inediti, è vero, e neanche rarità di spessore, considerato che le cosiddette “bonus” sono tracce in lingua straniera all’epoca destinate a un mercato estero all’interno del quale l’artista – per motivi diversi, tutti comprensibili e non analizzabili in questo contesto – non ha mai fatto breccia. La confezione, pur realizzata in economia, è elegante ed essenziale perché a parlare, in effetti, è lo stesso contenuto.
È innegabile che la carriera di un maestro – un grandissimo maestro, in questo caso – non si possa riassumere con settanta capolavori. Di Battisti, è vero, non si butta via niente, gli appassionati lo sanno bene, dunque è inevitabile che le omissioni siano tante e importanti, ma il fine a tal proposito giustifica i mezzi. Prendetevi qualche ora di tempo, aprite la finestra in queste prime giornate primaverili e inserite nel lettore, uno dopo l’altro, i quattro cd. Le canzoni le conoscete tutte, ma il vostro cuore vi inviterà a naufragare, per l’ennesima volta, tra i sapori di Un’avventura, i tristi odori di Fiori rosa, fiori di pesco, fino ai fari spenti nella notte di Emozioni, la canzone che più di altre segna il suo passaggio verso le biciclette abbandonate sopra il prato (La canzone del sole), il vestito nero della madre coi fiori non ancora appassiti (I giardini di marzo), l’amore donato a chi non sa che farne (Anche per te), le case ricoperte dalle rose selvatiche (Il mio canto libero).
C’è soprattutto un arco temporale, decisamente circoscritto, durante il quale Lucio, con l’ausilio di Mogol, manda in frantumi i canoni della musica italiana, un vero e proprio big bang che imprigiona le coordinate di una tradizione facendola esplodere. Niente, da qual momento, sarà più lo stesso. Anticipati dal 45 giri La canzone del sole/Anche per te, che segna il vero punto di svolta in direzione di una produzione più matura – a livello musicale e lirico –, nonché il passaggio dalla Ricordi alla Numero Uno, tra il 1972 e il 1973 vedono la luce i tre album che, a giudizio del sottoscritto, sono da annoverare tra le migliori produzioni discografiche che il nostro paese abbia mai prodotto (se date un’occhiata alle track list capirete il perché): Umanamente uomo: il sogno, Il mio canto libero, Il nostro caro angelo. Da quel momento Battisti avrebbe potuto vivere di rendita, ricalcando all’infinito una formula vincente in grado, già all’epoca, di aggiornare il linguaggio ritmico, lirico e melodico dei cantautori classicamente intesi, pochi dei quali capaci, come lui, di intraprendere nuovi percorsi scandagliando sonorità inesplorate e rischiose.
Le avvisaglie, se guardiamo bene, c’erano già state con l’album controverso che la Ricordi un paio di anni prima aveva quasi deciso di non pubblicare perché poco commerciale, Amore e non amore, un concept tendente al progressive e decisamente indigesto alle classifiche. Le conferme non tardarono a manifestarsi negli anni a venire, addirittura subito dopo la trilogia dei miracoli – capace di oscurare, nelle charts dell’epoca, il lato più recondito della luna dei Pink Floyd e il pianoforte di Elton John –, quando Anima latina spiazzò tutti con la sua complessità lirica e musicale. Da qui in avanti le sorprese non saranno più sorprese, gli arrangiamenti si faranno “internazionali”, così come le collaborazioni e gli studi di registrazione, con alcuni punti fermi, le canzoni che scivolano via tra le modulazioni di frequenza e restano impresse nel cuore di generazioni diverse diventando classici senza tempo. Fino alla fine di un’epoca, quella di Battisti-Mogol all’alba degli anni ottanta, quando le giornate, per molti fans, diventano uggiose. Le preoccupazioni si delineano già nel 1982 al cospetto della terra di mezzo rappresentata da E già, un album i cui testi sono affidati seppur parzialmente alla moglie (lo pseudonimo utilizzato è Velezia), e nel quale i sintetizzatori sostituiscono completamente gli strumenti, lasciando a bocca aperta critici e ascoltatori. L’incontro con Panella altro non è che la scoperta definitiva di un percorso obbligato da intraprendere, pur se nella sua estremità, che però lo allontanerà da una fetta di pubblico molto consistente.
Nel cofanetto il periodo più sperimentale è riassunto nel quarto e ultimo cd. Un ascolto anche disattento ci fa capire, se ancora dubitiamo, che alcune canzoni (soprattutto quelle tratte da Don Giovanni, primo capitolo del sodalizio con il poeta romano) sono anch’esse gioielli da riscoprire, pur con sonorità che oggi appaiono datate – perché sì, è il Battisti più “classico” dei primi settanta a resistere al tempo senza flessione alcuna. Ripercorrendo gli ultimi anni e gli ultimi album – ormai siamo nei novanta – viene da chiederci quali altri confini avrebbe esplorato, il buon Lucio, se non avesse deciso di comporre altrove le sue melodie.
Un genio, Battisti, il cui valore è stato più volte riconosciuto anche da artisti di fama internazionale i cui nominon sto qui a elencare. Ricordo solo che negli anni novanta, in un’intervista rilasciata a una famosa rivista musicale, un certo John Cale – fondatore insieme a Lou Reed dei Velvet Underground, mica robetta – ebbe parole di profonda stima nei suoi confronti, con l’augurio, un giorno, di poter realizzare un disco di cover delle sue canzoni.
Si dice che al cimitero di Molteno, il paese in provincia di Lecco dove Battisti ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, la sua tomba sia abbandonata all’incuria, piena di polvere e lettere di appassionati. Ma a noi questo non interessa. I giardini delle sue canzoni continuano a fiorire ovunque, non solo di marzo.
(David Nieri)