Fino alle pendici del paradiso e ritorno. Forse questa scalata verso un oltre da esplorare e rendere come nuovo alla sorella umanità può essere una possibile chiave di lettura di “Verso”, esordio della giovane cantautrice altofriulana Elsa Martin, un grande e drammatico affresco che ripropone nell’oggi l’eterna domanda sul significato della riscoperta e della incessante costruzione della musica popolare.



La domanda non è scontata.  Cos’era due anni fa il recupero del patrimonio folk è cosa è oggi?  Cos’era in grado di dire allora con la splendida opera di una Laquidara che esplorava in lungo e in largo tutte le latitudini possibili di un’eredità antica e come può contribuire oggi a far pulsare l’umano di vita, origine, percezione e destino?  La risposta in questo disco, splendido e insolito, desueto e non abitudinario come non abitudinario è il coraggio di amare di un amore potente non meno di quello dei primi anni fuori dalla culla, a livello di quel primo sì di cui tutti abbiamo bisogno oggi, nuovo, gustoso e abbondante quanto e in maniera più totale di allora.



E questo è un disco che di grandi sì – vecchi e nuovi – è pieno, e non solo per il vaglio accurato di una tradizione ricca e risalente ma per il suo ridisegnarsi e consolidarsi nelle più vive e brulicanti istanze d’autore.  In esso vi si può scorgere il pregiato restauro dei tradizionali popolari nordestini, l’innesto di contaminazioni paneuropee, stoccate di world music e serrati confronti in campo aperto di sinfonie sonore dislocate tra mediterraneo e sud ovest continentale.    

Si diceva della Martin.  Friulana di Tolmezzo, figura elegante e longilinea, diplomata in territorio austriaco al conservatorio di Klagenfurt, imbastisce un’opera tesa, sfaccettata e multiforme sui detti presupposti con il pregio non indifferente di non abdicare mai da un linguaggio ad alta tensione se non in un finale che richiama l’idea di un estremo affidarsi quotidiano.  Un disco in larga prevalenza in lingua friulana che pur uscito nell’ultimo quarto del 2012 è rimasto in una sorta di limbo dove si è guadagnato il prestigioso Premio Andrea Parodi e un posto tra i finalisti della Targa Tenco nella sezione “Opera Prima”.  



Un’opera per la quale si può senza remore scomodare l’aggettivo “di una bellezza smisurata” tanto da candidarsi sin d’ora tra i dischi da custodire in un giardino delle memorie indelebili per l’anno in corso e forse oltre.  Coadiuvata dall’alter ego Marco Bianchi, bodyguard dell’impianto sonoro e ispirato cesellatore di ricami chitarristici, marca visita con una Neule Scure che da una quieta ed espressiva melodia contemplativa si produce in repentine incursioni che sospirano danzanti su un canto declinato quasi in 7/8.  

Un inizio di stregante intimità che però è solo il preludio a scenari in continua mutazione.  Ecco calcare il proscenio un coro di esperte cantrici femminili – Trio di Givigliana – che con toni aspri, scoscesi e accorati canta in Al vajve lu soreli della sofferenza per i propri amati destinati alla guerra. Un minuto e mezzo e subentra la Martin che nella simmetrica Al vajve ancje il soreli espone il tema dominante di quelle liriche (“piangeva anche il sole nel vederlo partire ed io che sono la sua fidanzata non devo forse piangere?”). L’effetto è d’incanto. Il tradizionale si tramuta in lenta, musicalissima e dolorosa ballata modulata alla maniera di un madrigale e chiusa da un lungo ostinato di violino giocato sul filo dell’etno world nordeuropea.

C’è spazio anche per alcune belle escursioni italiane.  Come un aquilone è una soffusa aria tra jazz e cantautorato mentre Neve svela gustose connotazioni pop ma è nella sezione centrale dell’album che il sodalizio Martin/Bianchi impressiona con una successione di brani contesi tra tradizionale e universale, tra liturgico ed epifanico.  In primis Gjoldin Gjoldin scanzonato, agreste e gioioso ballo propiziatorio rilasciato nel ‘600 dal compositore/prelato friulano Don Lazaro Valvasensi e riarrangiato tra violini, chitarre tambureggianti e cori femminili d’aia.  Calda sera è da par suo l’episodio più personale a appassionato di una Martin che riscopre nel ritratto della nonna l’origine fondante e inesauribile di speranze, dolori e gioie tra ricordi di favole, arcolaio e rosari (“ieri non finisce, non passa se appassisce, non crede nell’autunno”).

In coda al terzetto il tradizionale O staimi atenz, antico canto friulano dell’avvento reso in un potentissimo arrangiamento di Marco Bianchi che vede Elsa squadernare il pregiato armamentario di un canto popolare che si snoda tra larghi sacrali e veloci barocchismi sciolti.  Il tutto sostenuto da una chitarra che trama senza sosta su armonici preziosi e dilaganti.

E’ il punto più alto per livello d’intensità e d’originale intuizione che va a saldarsi a Dentrifur capolavoro firmato dalla stessa Martin dove si rieditano a trecentosessanta gradi vita, vicissitudini e destini di una musica popolare che sa di ancestrale ed eterno, tra perentori affondi medioevali del violino di un’eccellente Lucia Clonfero, una ritmica tesa e incalzante e un gioco vocale che procede intenso e serrato sciogliendosi in un finale pieno di echi e riverberi.

E tra i ricorrenti intermezzi delle cantrici del Trio, la coerentissima produzione di Alberto Roveroni e gli ottimi interventi al clarinetto di Francesco Socal, il disco si chiude con due inni alla vita nel suo continuo rinnovarsi come nascita,  La lus sorretta dal bellissimo finale dei Bambini di Betania di Tolmezzo e la traccia nascostaNinna Nanna, uno di quei canti che pur senza un ricordo definito appartengono al codice segreto e non scritto di una bellezza che segue l’unicità della persona sin dai primi passi.

In sintesi, qual è l’importanza e la bellezza di un fenomeno come la musica popolare nell’oggi ridisegnato da Elsa Martin? Può trovarsi in queste bellissime parole di Stefano Montello che accompagnano la musicalità straordinaria di Dentrifur.  “Musica che dorme con me, che piange con me che ride con me e non mi ascolta, che ferma i giorni, che punta i piedi, che veglia i vivi, musica che sa il perché, domanda a lei che sa di me e non mi ascolta, musica sempre sul margine che fa la punta al cuore e sta dentrofuori”.

La grande musica come l’amore vero che esplora il nostro intimo nel supremo e segreto sguardo che solo noi possiamo sorprendere fino in fondo, è qualcosa che si indossa, un respiro a doppia velocità, una temperatura del cuore che anche nel timore dell’oblio combatte la sua buona battaglia.  La grande voce e la splendida musica di Elsa, le sue storie sono questa battaglia, questa promessa che non ci abbandona e ci offre il fianco.