Quattro del pomeriggio di un Sabato Santo dove le strade milanesi sono per una volta rese deserte e solitarie dalla pioggia battente, una di quelle giornate dove è possibile tenere i cinquanta all’ora in auto senza i continui e snervanti stop and go del ciclo urbano. Sembra quasi che il mondo si sia fermato e che il buio fattosi su tutta la terra in quel tremendo Venerdì di oltre duemila anni fa continui a permanere sotto forma di un grigio plumbeo che ci lascia sperduti proprio come i discepoli del Cristo in quei due interminabili giorni che seguirono la crocefissione.
Giunto davanti alla clinica Columbus in quella zona che insiste tra le direttrici della metropolitana rossa tra Buonarroti e la vecchia e dismessa fiera di Amendola, ci si immette nel lungo flusso umano diretto alla camera ardente di Enzo Jannacci con una tranquillità che non appartiene alla frenesia della nostra insolente ed esausta quotidianità.
E allora ti imbatti nell’attempata bella signora dallo sguardo profondo e dignitoso nella sua composta malinconia, forse l’amore di gioventù, forse quella Lina che non ne voleva sapere di Enzo tantissimi anni fa ma che ha custodito per tutto questo tempo in un segreto angolo del cuore quell’attenzione amorosa dedita e non corrisposta, così marginale e quasi disperata nell’anelito di un impossibile sì. E ancora nell’anziana signora dai capelli arricciati in maniera ordinaria e seriale come quelli di tante anziane signore che sembrano essere state sempre così, quasi nonne d’Italia per vocazione che sanno di sofà casalingo e giradischi adiacente a diffondere le note dei primi vinili dello Jannacci dialettale.
Mi chiede in silenzio con un solo segno della mano se quella sia la fila giusta, le faccio cenno di sì, in un clima rispettoso e inusuale rotto solo per pochi istanti dal chiacchiericcio di qualche sciura con marito al seguito, pochi istanti di un ridacchiare forse inopportuno forse più semplicemente parte di quel campionario di umanità ritratte da Jannacci nella sua lunga galleria di volti, desideri, vite spezzate e personaggi bizzarri.
Una mezz’ora di fila che non si avverte perché davanti ti scorrono siti ed edifici che sembrano emanare una fisicità viva come un abbraccio, come madri sempre partorienti quasi che lì stiano prendendo nuova forma e sembianze le storie e i destini dei personaggi delle sue canzoni. Sulla sinistra un gruppo di case tipicamente di ringhiera, alcune di un color zabaione ben curato con un sentore di grazioso restauro, altre più ordinarie e umili ora di un grigio fuligginoso, ora di un marroncino senza allegria. Sulla destra uno dei vecchi edifici della Columbus che nel nero sudicio e bruciato di certi suoi contorni sembra evocare le ferite del nostro cuore, così dure e dolorose da farcelo avvertire in petto quasi come carbonizzato.



Eppure no, l’umanità è questo strano e insondabile guazzabuglio, un’architettura edificata da uno strano e un po’folle ingegnere che ha scommesso l’impossibile sulla propria creatura. Un destino di felicità che ripulisce da qualsiasi bruciatura esistenziale, un cuore che nel suo ardere ferma attimi eterni di un desiderio che si scopre puro e innocente contro ogni speranza. In attesa di quel sì più grande di tutti, di quel bacio mai avuto o dissolto nella tristezza di un gesto divenuto routine senza gioia.
Si arriva, poco avanti a noi sulla sinistra la casetta destinata a camera mortuaria, nell’anticamera una piccola icona del Cristo che sottolinea come in questo passaggio nulla andrà perduto. Entrando si sfila davanti a lui in quegli impercettibili ed eterni istanti. C’è chi accarezza i fiori sistemati ai piedi del letto sul quale Jannacci è posto mimando il gesto di soffiargli un po’della loro brezza. Il sottoscritto si limita a un segno di croce e a un cenno di genuflessione. 
La pioggia fuori è così impetuosa che sembra piangere tutte le lacrime trattenute da tanti che lo amavano e ne avevano condiviso dolori e aspirazioni. Il volto è pienamente il suo pur nel travaglio di mani e membra tumefatte e gonfie, eppure quieto, sereno e spalleggiato da una grande immagine del Nazareno tanto amato che sembra chinarsi su di lui come a dire, “dai vieni con me che ti porto a casa”. 
Sembra quasi che nel suo gonfiore il volto di Enzo con il suo impareggiabile modo ironico e burlesco stia solo prendendo un lungo respiro in attesa di stupirsi e commuoversi davanti all’incontro con il volto amato che niente e nessuno potrà strappare. Quello del grande Musical allestito da quell’ingegnere folle che ha scommesso tutto su quel grande spettacolo finale. E allora sì che tutto il mondo esploderà.

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