C’è una canzone, “Un’estate fa”, che metto insieme a “Vengo anch’io. No, tu no” a incorniciare i miei anni “bambini”. La memoria della prima mi assale ora che leggo della morte di Califano, il ricordo della seconda e il dispiacere per la morte di Jannacci mi accompagnano da ieri.
Un uno-due che mi ha fatto un grande effetto. Io sono tra quelli che hanno una canzone appiccicata a molte strade conosciute e spesso percorse, a molti luoghi, a molte città, a un sacco di facce. E’ da sempre, da allora direi, da quando “Un’estate fa”, nella versione cantata dall’autore Michel Fugain e tradotta dal francesce in italiano da Franco Califano, suonava alla radio, anno 1973, che io associo questa melodia all’architettura del Villaggio Olimpico: costruzioni tutte uguali tirate su nel quartiere Flaminio, a ridosso dell’omonimo stadio romano, per accogliere gli atleti partecipanti alle Olimpiadi del 1960.
Non c’è volta che io passi da lì, attraversando il Ponte di Corso Francia, senza che le note di quella canzone corrano nella mia testa. Si deve al fatto che venne usata in una serie di film per la tv intitolati “All’ultimo minuto”: storie brevi, sempre a lieto fine ma attraversate dal brivido. Vite in pericolo, felici risoluzioni dell’ultimo… minuto, condite da musica battente e molto emotiva, che oggi il gergo televisivo definirebbe “tensiva”.
Ho una scena incollata nella memoria, una scena che non ho più rivisto, in cui i protagonisti erano ignari di quel che gli stava capitando ma qualcosa di terribile li attendeva. La regia – se i quarant’anni secchi trascorsi da allora non mi tradiscono – raccontava con maestria un pomeriggio d’agosto tra quelle costruzioni restituite dall’obiettivo con effetto alquanto spettrale. Immagini – più la musica distesa di “Un’estate fa” – che mi spaventavano quanto mi aveva spaventato “Belfagor: il fantasma del Louvre”. So che chi è stato bambino negli anni Sessanta ricorda che “strizza”, ovvero che paura, metteva Belfagor.
Forse non tutti ricordano “All’ultimo minuto” ma io, potere della musica, rivivo quelle sensazioni ogni volta che passo da quell’angolo ormai un po’ dimesso del quartiere Flaminio. Tutto ciò non nega la bellezza della composizione, che resta tra le cose più belle ascoltare in quegli anni. I Delta V ne fecero una versione degnissima a inizio anni 2000, e parlando di nuove generazioni anche i Tiromancino incrociarono bene con “Un tempo piccolo” (scritta dall’autore romano con due miei amici, Antonio Gaudino e Alberto Laurenti) la strada di Franco Califano.
Forse il Califfo sconterà il fatto di essere scomparso poche ore dopo Jannacci e forse il suo essere meno politically correct di altri gli porterà ricordi e commemorazioni meno altisonanti, ma non si può non riconoscergli un’autenticità e un’unicità che nel mondo dello spettacolo sono risorse di pochi. Califano ha scritto molte cose belle offuscate dall’immagine un po’ trucida e ostentata del rubacuori d’altri tempi. Non gli si può ascrivere la genialità appartenuta ad altri né la classe di colleghi più celebrati, ma un posto tutto suo nel panorama musicale italiano, un posto autonomo come autonoma e libera è stata la sua vita, gli va riconosciuto. Anche da chi, come il sottoscritto, non possiede nemmeno un suo disco.