E’ uno di quei dischi che catturano per l’intima forza di piccole storie abbozzate e costruite nota dopo nota con il pregio della pazienza e di un senso di sacrificio e di pulizia, una caratteristica squisitamente artigianale nel senso più puro e aperto di sé.  Questo “Canzoni per Un Anno Vol. 5” ci racconta della felice maturazione artistica di Ivano Conti, music maker di razza, capitano di ventura del progetto RD Rock (Francesco D’Acri, Rita De Cillis, Walter Muto fra gli altri), cantastorie di ringhiera, di destini incrociati sull’asfalto tra storie della Milano popolare e inferni d’hinterland, processore di sana ironia a metà di una rotta lunga come un’interminabile storia di peregrinazione. 



La sua vicenda è il ritratto di un musicista che si colloca nella folta schiera dei cantautori del quotidiano dalla tempra ferrea e dal tenore anti-idilliaco (da Stefano Rosso e Alessandro Bono, da De Gregori e Luigi Grechi).  E il buon Conti combatte da par suo senza artifici ed espedienti da romanticismo eroico, fa lievitare le canzoni nella precisione e nel lessico ritmico della chitarra e ridefinisce su coordinate asprigne e scabre quel suo cantato originariamente attestato su una certa uniformità da cantante melodico. 



Il lavoro in questione è quello che spesso si ama definire come lavoro di sintesi, di messa  a punto lucida e coerente di un lungo viaggio tra buone intuizioni e investigazione dura e tenace del proprio io in una battaglia tra verità, riflessi e giochi di specchi.  Un insediamento dove i solchi svelano e mettono a nudo la varietà delle esperienze intrattenute con il mondo d’autore come la stessa sequenza dei brani sta lì a dimostrare con cadenza quasi geometrica. 

In apertura per esempio Con le canzoni è una pura, nuda canzone nell’accezione elementare e primigenia del termine così come è lanciata al recupero della tradizione di quel cantautorato abile a riversare con destrezza le piccole istantanee del quotidiano in parole e musica. Due semplici accordi per un arrangiamento asciutto e lineare in una frazione letteraria che sta tra un Guccini e uno Stefano Rosso.  E a seguire Mani scandisce una gustosa ballata d’input folk-rock/west-coast incentrata su una ricorrenza di fisarmonica che si incunea tra un Bubola e un De Gregori giocando di fino su una nuova risoluzione dell’eterno equivoco dei termini destra/sinistra. Un alternarsi serrato di strofe spezzato da una chiusa che sorprende per quanto sa essere lapidaria e toccante.



Sono canzoni per l’anno solare, forse per le singole stagioni se non per i giorni e le ore.  Minuti e istanti in cui l’uomo si mette a rischio nelle sue scoperte, nelle sue gioie come nelle disillusioni in cerca di redenzione.  Si ascolti per esempio il dolce e discreto trasporto de Il mio testamento dove una linea di xilofono-carillion detta tempi e modi dell’esposizione, o la melanconia urbana di Domenica mattina sovrastata da un glockenspiel sound che unisce il Morricone di Metti una sera a cena ad uno struggimento tutto d’autore, o ancora l’intemerata Nomadi-style di Carne e sangue.

Il nostro cantautore/produttore si mostra autarchico assumendo il controllo pressoché totale della situazione, suonando, arrangiando e avvalendosi dell’apporto esterno del solo chitarrista Francesco Farina ottimo cesellatore di suoni in Mani e Giovanna.  Quest’ultima è la messa in note senza falsi pudori della storia dura e scomoda di una malata di SLA che rammenta per forza e lirismo il modo in cui lo Jannacci di Natalia trattò a suo tempo della grave malformazione cardiaca di una bambina.

Ma è l’ideale sezione centrale del lavoro che inanella una sequenza sorprendente e ispirata, quasi un forcingd’autore senza soluzione di continuità.  Da una Dislessico Surreale che forma un impasto dove convivono giocosità eighites, Battisti, Antoine, colpi su piatti, filtri sonori e tastiere in odore di psichedelia, a una Un Ponte di luce che mescola in maniera suggestiva sonorità in quota Air ed età dell’oro del cantautorato italiano.  

E tra le due citate forse quello che è il gioiello della carriera di Conti.  Se non canto di te è un’autentica confessione personale sul ciò che vale che si regge in maniera quasi esclusiva sul binomio chitarra/voce in un dedalo di accordi aperti e arpeggiati con un magistrale avvicendarsi tra tema principale e variazioni e con una esposizione vocale ispiratissima come nei migliori momenti della canzone d’autore.

C’è infine tempo con la canzone del trenino per un divertimento familiare pieno di sonorità argute e sfrigolanti e ancora per una suggestiva Beniamino, il pastore dormiente conclusiva aria natalizia che mette insieme Cohen e Dalla, celebrazione e riscoperta di un senso di sé e delle cose forse tenuto a lungo in soffitta e balenato come nuovo da un lungo valico di stelle tornate a splendere dopo un letargo che pareva eterno.