E con l’effetto destabilizzante che si conviene a questo ensemble indecifrabile e genialoide ecco l’irruzione periodica di Elio e le Storie Tese. O gli Elii.  Irruzione che da stagionale si è fatta bimestrale. Come un fulmine a ciel sereno.  O, al contrario, come il sereno di una primavera che giocava a nascondersi e che sembra palesarsi improvvisa, ribalda e malandrina sotto le mentite spoglie di gianburrasca che arrivano al parco giochi, ti salutano con quel fare finto cordiale ed entrano a gamba tesa prendendosi quel pallone da sempre nelle mani dei grandi guru del politicamente corretto televisivo e mediatico. Quelli che a scadenza fissa ci intimano di sederci compìti e ritti sul sofà casalingo ad assistere devoti alle grandi liturgie del carrozzone culturale approvato dal comitato centrale del gusto e del giusto.



Succede così che il surrogato di minestrina servitoci per anni viene fatto fuori in quattro minuti e mezzo da questa Complesso del primo maggio vergata da questi rottamatori delle buone convenzioni approvate nel ricorrente corteo che unisce salotti trinariciuti e circoli dell’estremismo che piace tanto.  Proprio loro che hanno spesso e volentieri prestato le loro clownerie a trasmissioni ben orientate a sinistra tra Dandini, terze vie e terze reti, eccoli mettere in pentola e allestire con cura e azzardo un ricco minestrone che ingloba tutti gli aromi e le spezie possibili combinate in quel modo sapiente che innesca trionfali richieste di bis a getto continuo. 



Anticipando l’imminente uscita del nuovo lavoro “Album Biango (sic), la band che ha coniato un abito sonoro inconfondibile mettendo insieme e rendendo omaggio a una schiera di grandi che va da Genesis e Zappa passando per Weather Report e aree contigue, dance music e canzone d’autore a trecentosessanta gradi, sfida e batte sul suo stesso terreno la mistica del purismo artistico da festa del lavoro.  La chitarra scordata, calante e suonata male che tanto non viene neppure ascoltata dal popolo a torso nudo che ne incarna il rito tra metalmeccanici, ragazze poco attraenti con piercing e sballo da ragamuffin.  L’obbligatorio dazio da pagarsi alle tendenze folk approvate dai guru dello stile (Bregovic e balcanismo), il libretto delle istruzioni cui attenersi doverosamente per l’allestimento della perfetta messa laica con tanto di attacco tutto megafono e slogan del capitalismo. 



E nello sberleffo ci entra pure l’ironia sull’ironia di un Van De Sfroos come emblema di un’espressione che in qualche modo è stata rimodulata, sdoganata e omologata come lungimirante e corretta da quei grandi burattinai dello show business.  Il risultato è in qualche modo simile e differente a quello della Canzone mononota.  Una strofa che evoca lo Jannacci grottescamente cavernoso de Il Marognero, citazioni di Rettore e Finardi, suoni sghembi e raffinati, musica brutta e bella si combinano e formano uno zibaldone impazzito e suadente, insolente e irresistibile.  Forse l’unica via possibile per una nuova canzone di protesta e piena di autenticità sociale nell’Italia ai tempi dell’esecutivo vacante.  Quella che prende le parti di un popolo lacerato e spossato da mal di pancia, depressioni e disillusioni indotte dal beverone culturale tassativo.  Se non è solidarietà questa.