L’heavy metal è un genere in crisi e lo è ormai da anni. Crisi delle band storiche, che non fanno un disco decente da parecchio tempo, crisi delle nuove leve, che non riescono ad emergere per colpa (anche) delle asperità di un mercato discografico sempre meno accogliente. Ma forse tutto questo è semplicemente il riflesso di un prblema ben più grave, vale a dire che questa musica è troppo chiusa in sè stessa, troppo autoreferenziale e, quando è così, è difficile tirare avanti a lungo, pretendendo nel contempo di soddisfare anche i palati fini. 



Ogni tanto, però, nasce qualcuno che si eleva sopra la media: Tobias Sammet, nativo di Fulda, Germania, classe 1977, fece parlare molto bene di sè con i suoi Edguy e in seguito, dopo aver raccolto enormi consensi con una manciata di dischi davvero riusciti, si dedicò al suo progetto più ambizioso. “The metal opera part.1” uscì nel 2001 sotto il monicker Avantasia, e fu molto più di un successo: contribuì infatti a rivitalizzare una scena, quella del cosiddetto “power”, il metal più melodico e contaminato da influenze classiche, che aveva vissuto una straordinaria esplosione commerciale nella seconda metà degli anni ’90 (ovviamente dopo l’esaurirsi del fenomeno grunge) ma che era poi ripiombato nell’oblio, vittima della solita sindrome dell’ombelico. 



Il progetto Avantasia diede nuova linfa vitale al genere, complice un songwriting di altissimo livello e una formula inedita: un concept album la cui storia si dipanava nel corso delle varie canzoni, con cantanti diversi a dare voce ai personaggi principali. Una via di mezzo tra la rock opera e il musical di Broadway, insomma, ma tutto rigorosamente riscritto col linguaggio famigliare a gente come Helloween, Gamma Ray, Blind Guardian e altri padri fondatori della scena. 

Il successo di vendite e l’entusiasmo dei fan portarono Sammet a dare stabilità a quello che sarebbe dovuto essere semplicemente un episodio isolato: ad esso sono seguiti altri cinque dischi, per un totale di tre storie raccontate. L’ultima delle quali, intitolata “The mistery of time” e cominciata nell’album uscito il mese scorso, avrà un sequel probabilmente già il prossimo anno. 



A suggellare tutto questo, ecco arrivare l’immancabile tour. Non è il primo della loro storia, perché il carrozzone Avantasia ha cominciato a girare già nel 2008: si trattava però di show isolati, prevalentemente all’interno dei festival estivi. 

Oggi la decisione è quella di un vero e proprio tour, con un cast e una produzione decisamente allargata rispetto alle precedenti incarnazioni. E questa volta anche l’Italia è compresa, dopo che era stata esclusa nel 2010 (nel 2008 vennero invece all’Idroscalo di Milano). 

L’Alcatraz è quasi del tutto gremito e tra il pubblico c’è gente di ogni età e di ogni tipo, non per forza metallari duri e puri. Tanti i giovanissimi ma non sono per forza la maggioranza. I motivi di interesse sono tanti ma uno è più importante degli altri: questa sera sarà della partita anche Michael Kiske, ex frontman degli Helloween, una delle voci più belle di questo universo musicale, uno che dopo aver registrato un paio di capolavori a fine anni ’80 si è praticamente ritirato dalle scene, limitandosi al solo lavoro in studio. Aveva giurato che non sarebbe mai tornato su un palco (lo disse anche a me quando ebbi la fortuna di intervistarlo) ma già da un paio d’anni, complici forse le bollette da pagare, ha dovuto capitolare. Sono in tantissimi a non averlo mai visto e la curiosità è davvero alta. 

Per il resto il cast è quello solito e ben rodato: Oliver Hartmann e Sascha Paeth alle chitarre (quest’ultimo, che è anche produttore di fama mondiale, ha lavorato su tutti i dischi più importanti degli Edguy), Miro alle tastiere e orchestrazioni (altro personaggio quotatissimo all’interno di questa scena), dietro le pelli il solito Felix Bonhke, già compagno di Sammet anche negli Edguy. 

Tra i cantanti, diciamo che l’assenza più pesante è quella di Jorn Lande. Il biondo norvegese ha tenuto in piedi praticamente da solo i due precedenti tour ma ora sta registrando il suo nuovo disco solista e non ha potuto accettare l’invito. Lo sostituisce Ronnie Atkins dei Pretty Maids, hard rock band di culto che dalle nostre parti nessuno o quasi conosce. Se la cava bene, ma le doti sono inferiori, c’è poco da fare. È nuovo della partita anche Eric Martin dei recentemente riformati Mr. Big: ugola sopraffina, la sua, tanto che  l’esecuzione di “What’s left of me”, ballad del nuovo disco che Sammet gli ha praticamente cucito addosso, è uno dei momenti più belli della serata. Poi va ad occuparsi anche di alcune cose che furono di Lande, con un effetto strano (le due voci sono radicalmente diverse) ma non del tutto sgradevole. 

Infine, i nostalgici come il sottoscritto hanno goduto anche della presenza di Thomas Rettke, indimenticato singer dei mai troppo rimpianti Heaven’s Gâte (nei quali, guarda un po’, militava anche Sascha Paeth.). Sul palco si occupa dei cori ma ha avuto anche un paio di interventi come solista, decisamente apprezzati anche se la sua voce non viaggia più come una volta. 

Che dire dello show? È stato un grande spettacolo e ha dato alla gente esattamente quello che voleva sentire. A dispetto dell’impianto narrativo dei concept, il genere proposto è poi un classico power metal con molti inserti melodici e sinfonici. Tutte cose molto dirette, per cui dal vivo la componente teatrale è sacrificata a favore di un live show tradizionale, in cui i singoli brani vengono eseguiti uno dopo l’altro, coi cantanti che si alternano on stage e il solo Tobias a rimanere sempre o quasi presente sulla scena. Grandissima presenza la sua, grandissime doti da intrattenitore (il cabaret che offre tra un pezzo e l’altro è uno spettacolo nello spettacolo), negli anni la sua voce è andata purtroppo calando sempre di più. Se la cava ancora egregiamente, ma l’impressione è che per questo genere sia ormai sempre meno adatto. Ne è la prova il fatto che il meglio di sè stasera lo abbia dato sulle ballate, quelle di sapore pop che ultimamente gli piace tanto scrivere. Dovesse alla fine decidersi a pubblicare un disco intero su questa falsariga, scandalizzerebbe molti puristi ma forse farebbe un capolavoro. 

Per il resto, il tanto atteso Kiske si presenta in scena al quarto pezzo, il classico “Reach out for the light” e non delude le attese. È calvo, è ingrassato parecchio, ma la voce è ancora uno spettacolo. Il mio cuore non batte più per il metal da molto tempo ormai ma sentirlo cantare mi ha fatto comunque venire la pelle d’oca. Lo show non si regge su di lui ma i suoi interventi saranno molti e tutti pesantissimi. A fine serata sarà tra i migliori, come è giusto che sia.

Eccezionale anche Bob Catley, singer dei leggendari Magnum, che come Kiske è ormai di casa nel progetto Avantasia. La sua entrata in scena su “The story ain’t over” è salutata da un boato che quasi copre la musica. È nato nel 1947 e quando lo si realizza quasi non ci ci crede. Dire che sembra un ragazzino è esagerato ma la sua voce è davvero come il buon vino, più invecchia e più migliora (non a caso i suoi ultimi dischi in studio sono ad un livello impensabile). 

La setlist è fin troppo telefonata ma c’era da aspettarselo: c’è quasi tutto il nuovo album, che anche in questa sede si rivela inferiore ai precedenti ma che a tratti riesce a mascherarlo bene. Poi largo spazio ai brani dei primi due dischi, che sono i più belli e i più amati dai fan. Si segnala una splendida versione di “In quest for”, ballata pianistica in cui Sammet e Catley sono i protagonisti e poi i tredici minuti di “Seven Angels”, forse la cosa migliore mai scritta da Avantasia, che per la prima volta trovano spazio dal vivo. 

Anche “The scarecrow” è molto rappresentato: senza Lande però, i pezzi di questo lavoro non rendono appieno, eccezion fatta per la cavalcata speed “Shelter from the rain”, con Kiske grande mattatore. 

Molto trascurati risultano “The wicked symphony” ed “Angel of Babylon” ma forse è meglio così perché sono lavori che vivono di parecchi momenti di stanca. Tra i pochi brani di altissimo livello, c’è però “Dyin  for an angel”‘ eseguita nel finale e splendidamente interpretata da un sempre ottimo Eric Martin, nel ruolo che nella versione in studio fu di Klaus Meine.

Come prevedibile, chiude il tutto una lunga versione di “Sign of the cross”, che vede tutti i cantanti riuniti insieme e che Sammet utilizza per presentare ampiamente ogni membro della band. 

Si va a casa dopo tre ore e venti di spettacolo: si tratta probabilmente di un record per un concerto metal, abituato di solito a performance concise ed energiche. Ne è consapevole anche Sammet, che salutando ironizza sul fatto che in molti lo avevano sconsigliato dallo stare sul palco così a lungo, sostenendo che il pubblico si sarebbe stancato. Ad osservare l’esaltazione dei presenti, pare proprio che non sia andata così. 

Un evento unico, ci piacerebbe dire, ma siamo sicuri che si ripeterà in futuro: con la crisi che avanza, questo è uno dei pochi prodotti che è in grado di vendere sempre e comunque. E pazienza se le ultime prove in studio fanno intravedere un declino compositivo che sembra difficilmente arginabile. Finché suonano così gli Avantasia non devono aver paura di nessuno. A patto che la prossima volta ci sia anche Jorn Lande…