“Le nostre teste si piegano mentre il dolce carro funebre ti porta via, nostro commilitone. Possano quegli angeli cantare e suonare nelle tue sfarzose accordature aperte mentre ti portano sulle loro ali, carissimo nostro fratello nell’anima”. Così scrive, ricordando la scomparsa avvenuta ieri di Richie Havens, Eric Andersen, uno dei tanti grandi eroi della stagione del folk revival, quando una generazione, per dirla con le parole di Paul Simon, si mise alla ricerca dell’America. Erano i primi anni 60 e Bob Dylan, Joan Baez, Tom Paxton, Paul Simon, Eric Andersen, Phil Ochs e appunto Richie Havens e tanti altri oggi dimenticati eroi minori imbracciando solo una chitarra acustica e recuperando la tradizione popolare del loro paese, riscrissero le regole della canzone ma soprattutto raccontarono un’America, quella kennedyana, che stava cambiando alla velocità della luce con il cuore pieno di speranza. Una speranza rimasta forse in parte una utopia. Richie Havens, scomparso ieri per una malattia all’età di 72 anni, potrebbe dire di no. Lui infatti era un nero, uno di quegli afro americani che proprio la passione degli anni 60 contribuì ad affrancare definitivamente: senza questi folksinger che scossero le coscienze degli americani probabilmente Barack Obama non sarebbe mai giunto alla Casa Bianca.
Persona splendida in tutti i sensi, quella artistica ma anche quella fisica: un nero alto, imponente con lunga barba da profeta della Bibbia, sembrava giungere dalle terre di Etiopia da dove il suo popolo era stato disperso nel mondo. Diciamocelo: per tutti noi cresciuti negli anni 70, quelle immagini di questo uomo nero vestito con un lungo caffettano che si muove come tarantolato sul palco di Woodstock devastando la sua chitarra a colpi inusuali di plettro e urlando la disperazione e la nostalgia del suo popolo – Freedom! – rimane il simbolo di tutti gli anni 70. Molto di più degli eroi fracassoni che sarebbero poi saliti su quel palco – Jimi Hendrix, The Who, i Jefferson Airplane, Janis Joplin – Richie Havens quel giorno incarnò totalmente e perfettamente l’anelito di libertà del popolo di Woodstock, un uomo solo contro il mondo a urlare il suo inesauribile desiderio di libertà: “I feel like a motherless child”, mi sento come un orfano, freedom freedom!
Fu il primo a salire sul palco quel giorno, ancora in pieno pomeriggio per tenere buone le decine di migliaia di persone che già si radunavano inaspettate nella campagna aperta, e di quel giorno divenne l’eroe.
Così oggi lo ricorda la sua agenzia di concerti, i primi a segnalare la scomparsa: “Da Woodstock all’Isola di Wight, da Glastonbury al Fillmore Auditorium, dalla Royal Albert Hall alla Carnegie Hall, Richie ha suonato nei maggiori e leggendari festival che ci siamo mai stati e nelle maggiori sale da concerto. Ma anche quando suonava in un piccolo club del Greenwich Village o in qualche piccolo teatro. lui era sempre eternamente grato alla gente che in qualunque numero arrivava a sentirlo. Più di ogni altra cosa, si sentiva incredibilmente benedetto dall’aver incontrato lungo la strada così tanti di voi”.
Chi scrive queste righe ha avuto la fortuna di vederlo suonare dal vivo solo pochi anni fa, prima che nel 2012 si dovesse ritirare dall’attività musicale per l’insorgere della malattia. Venne a esibirsi al Blue Note di Milano, elegante e intimo club simile a quelli del Greenwich Village di New York dove Richie Havens si era esibito per anni. Elegantissimo, la lunga barba biblica ormai bianca, lunghe collane afro al collo e sulle dita delle mani tanti anelli che regalavano maestosità e magia alle sue movenze sul palco. Incantò come sempre con il suo modo di suonare la chitarra unico: usava solo accordature aperte e non impiegava i classici accordi che tutti i chitarristi usano. Le sue lunghe dita si muovevano sul manico della chitarra come serpenti. Il pollice che normalmente non viene usato lui lo usava per creare accordi impossibili. Il risultato era una percussione chitarristica selvaggia e libera, davvero africana. E la sua voce possente come provenisse dai misteri della giungla su melodie di Bob Dylan o Van Morrison creavano un impatto unico. Nell’intervallo tra uno spettacolo e il successivo invece di rinchiudersi nel camerino come fanno tutti, era rimasto in sala a salutare uno a uno chiunque lo volesse.
Richie Havens fu un eroe del suo tempo, e lo rimarrà probabilmente per sempre. Freedom, libertà: è un sentimento che niente e nessuno, neppure il tempo, può cancellare.