Voglio ascoltare questo nuovo lavoro dei Deep Purple senza saperne assolutamente niente. Nessuna documentazione, nessuna ricerca su internet, neanche il libretto del cd, niente. Uniche munizioni, i titoli, del cd e delle canzoni . Now What?! è il titolo del lavoro; se volessimo tradurlo in italiano dialettale, potrebbe suonare in un efficace E mo’? E adesso, che c’è di nuovo?  Lo metto su, ad un volume considerevole (è mattina, i vicini avranno pazienza) e lo ascolto.



A Simple Song inizia scura e promettente, e mi balenano subito alla mente le stesse quinte vuote di Child in time, anche se in un contesto ritmico diverso. Basso profondo, chitarre pulite e la voce, che recita quasi un manifesto programmatico: “Time it does not matter, but time is all we have… Road it has no end, crossroads every time…”. 



Il tempo è quindi il grande tema, il tempo non ha importanza, eppure il tempo è tutto quello che abbiamo. E il primo incrocio, la prima svolta imprevista si verifica a due minuti esatti, dove l’atmosfera dell’inizio si trasforma repentinamente in un solido hard rock, chitarre distorte a manetta e organo a profusione, per poi tornare a casa nelle battute finali, con una aggiunta di flautini alla Stairway to Heaven. Un riff possente attacca il secondo brano, Weirdistan,  il regno dello strano, potremmo abbozzare in una stentata traduzione. Mi pare che fin dalle prime tracce ci siano elementi non comuni all’estetica tradizionale dei Deep Purple, mi spingerei a dire accenni di progressive, oltre l’hard rock puro e semplice. Come il solo di synth monofonico in questa seconda traccia, o nell’attacco della terza, che nel frattempo è cominciata. Una spazialità che sfocia addirittura in un suono orchestrale, archi analogici di grande qualità, e poi un riff  chitarra-basso ancora più cattivo. 



Tornano alla mente certe cose degli Yes, magari quelli anni ’80. Si tratta sempre di canzoni, ma scorrendo la lista dei titoli, ci si accorge che nessun pezzo dura meno di quattro minuti, uno arriva addirittura a sette. Niente robetta facile da radio quindi (ma nessuno se lo sarebbe aspettato…). Con curiosità crescente ci gettiamo quindi sul quarto pezzo, Hell to pay, che comincia con vigore, rock’n’roll all’ennesima potenza, pura materia prima incandescente, con solo di chitarra di tutto rispetto; eppure anche qui, alla fine del guitar solo che lancia quello di organo, una spezzatura ritmica ci porta per un istante da un’altra parte, inaspettatamente e in maniera convincente. Il ritorno a casa, riff e voce, è inevitabile. Il brano si chiude poi con una risata e il suono che decade, come un nastro che lentamente si ferma. E via con Bodyline. Qui la batteria attacca da sola e fa pensare addirittura ai Toto e alla loro Rosanna. In mezzo a un milione di ghost notes sul rullante alla Porcaro, gli altri strumenti entrano uno alla volta e portano all’immancabile, trascinato riff. Anche il pezzo (soprattutto il suo ritornello-slogan) porta in un’altra direzione ancora, senza offendere nessuno, un po’ più fusion, pur rimanendo la trama principale del tessuto il sano, vecchio hard-rock-con-organo-marchio-di-fabbrica. 
E siamo a Above and Beyond, basato su un ritmo in 3 lento e pesante e un pedale di basso su cui si snodano gli accordi di organo e chitarra distorta. Un minuto e mezzo buono di possente intro, poi degli accordi ribattuti di chitarra introducono il cantato. Brano pesante, anch’esso non tipico, segno di una fusione che deve essere avvenuta a livello compositivo, con l’introduzione di qualche nuovo apporto che non conosco ancora. 

Questo brano come ambientazione ed oscurità del tessuto armonico mi ricorda qualcosa dei Genesis o forse ancora di più King Crimson d’annata. Blood From A Stone attira in altri territori ancora, blues minore lento, notturno, certo non privo di chitarre metalliche e taglienti, ma che presenta addirittura un solo di piano elettrico (Wurlitzer?). Uncommon Man inizia con le inequivocabili chitarre di Steve Morse (su questo ormai non ho dubbi), pulitissime e super effettate, per passare ad un secondo movimento synth-e-chitarra-super-veloce-e-super-distorta. E tutto questo è solo l’intro: ci vogliono tre minuti prima di arrivare ad un riff di fiati (sì di fiati) che mescolandosi all’elettrica creano un effetto-regno-antico, che ambienta bene questa canzone dedicata ad un uomo non comune, se ho capito bene un Re. La voce, come nella migliore tradizione rock, è mixata in mezzo alla musica e non ‘fuori’, sopra la musica, come è comune in Italia, quindi non è sempre facile provare ad interpretare il testo. Sono passati sette minuti e non me ne sono accorto. Brano da grande apertura di concerto, scommetto che sarà questo ad essere usato come opening act. 

Ma mancano ancora tre canzoni. Après vous inizia con un delirio organistico degno del migliore Jon Lord (pace all’anima sua), o forse anche meglio. Poi la canzone si snoda, attraverso una lunga sezione mediana strumentale, un parossismo che continua fino ad uno sfrenato duello fra organo e chitarra ed una canonica ripresa finale. All The Time In The World è un rock in minore, semplice e solido, ma non per questo meno efficace. Vincent Price, probabile dedica al grande attore, noto soprattutto per le sue interpretazioni in ambito horror, chiude il lavoro. Ad una intro di grande organo da chiesa succede un brano scuro e potente, impreziosito da un bel guitar solo che monta piano piano, fino ad un obbligato, anche qui tendente al progressive, lievemente venato di epic. Sicuramente dedicato all’attore horror, vista l’ambientazione oscura e cupa. 

Allora, adesso è il momento di dare uno sguardo ad internet, e finalmente ai nomi dei membri: AIREY – GILLAN – GLOVER – MORSE – PAICE. Niente di nuovo, quindi, il grande tastierista Don Airey è con i Deep Purple dal 2002, la sezione ritmica e la voce sono quelle storiche e le chitarre di Steve Morse concludono l’ensemble, come ormai accade da metà degli anni 90. La formazione è la stessa del 2005, ma evidentemente la musica è uscita andando a pescare da radici composite e diverse, creando un album che ci viene voglia di ascoltare ancora, per scoprirne altri elementi. Non è un fattore assolutamente nuovo, i Deep Purple hanno sempre avuto la passione per la commistione dei generi, ma qui accade con vitalità nuova, creando pezzi interessanti e ricchi di sfumature compositive ed esecutive. Pezzi che varrà sicuramente la pena di ascoltare dal vivo, per valutarne la resa live e vedere come questi mostri sacri li affronteranno, unendo un glorioso passato a un sorprendente presente.