Che senso può rivendicare l’espressione “resistere” in un’epoca che ha fatto di questa parola un contenitore di partigianerie e conflitti umani privi di autentici punti di fuga da visioni ristrette e di ipotesi di apertura in senso antistrategico? Alex Cambise, cantautore di quella schietta tempra lombarda partorita dal circondario vigevanese rappresenta forse quel punto di fuga, la rottura del circolo vizioso e viziato della guerriglia tra umanità comuni nell’origine e separate dall’orgoglio di idee impazzite sulla vita e sulla storia.



Musicista di razza, chitarrista di gran livello allevato e cresciuto come elemento cardine della band di Massimo Priviero, cerca – come si suol dire – la propria dimensione artistica con un disco d’esordio nel 2010 (“Tre vie per un respiro”) che lo vede ancora in una fase di studio tra buoni spunti e un chiaro senso di transizione dallo stato di session man a quello di artista completo e personale.



L’Umana Resistenza” segna un importante passo di maturità di Cambise nella torrida e omologata giungla del music business o di quello che ne rimane.  Nel canovaccio narrativo del disco di questo cantautore rock lombardo si celebrano eroi dell’asfalto, capitani degradati dalla piega tragica di vicende grandi e maledette, testimoni derelitti del mai sopito desiderio di un amore pieno e smisurato.  

Musicalmente il nostro è l’ultimo dei soldati di quella silenziosa ma folta schiera degli americani ipotetici, di quegli yankees d’Italia che rifuggendo la facile tentazione di decorarsi di icone made in USA per ragioni di pura facciata, si lanciano tra navigli, nebbie e highways lombarde alla ricerca di quel principio di luce e di inesauribilità del cuore che emerge inesorabile anche negli abissi di una vita a tu per tu con il calice amaro di fallimenti e di tragedie prive d’indizi di rinascita. 



Immaginate questo scenario con il nostro a impersonare una sorta di cowboy della bassa che inizia la storia di questo disco come in un set cinematografico. La scena d’apertura lo vede sedersi a un tavolo da gioco per la più classica delle partite a poker.  Pronti via ed ecco la sua voce ruvida, schiacciata non priva di efficacia per un bluff involontario dove l’eroe sembra quasi avere remore nel giocare i propri assi.  In questo senso “Nati nei ‘70” si presenta come una canzone pragmatica, discretamente carica, un biglietto da visita di stampo generazionale.  A conti fatti un indugio senza il grande spunto di rilevo.  

Questo dire e non dire rende ancora più rivelatorio l’impatto con la seguente bellissima “Canzone per Vladimir Pravik”, che – su liriche dedicate alle umanità rinnegate e reiette guidate dal capo dei pompieri di Chenobyl – in poco più di quattro minuti ridefinisce i canoni della rock ballad sostenuta e variegata di aromi che spaziano tra combustioni rock, arabeschi cajun e larghe arie sulla rotta di New Orleans.  

A seguire “Come macchine”, rock veloce ed efficace che si avvale di ritmi tosti e del mandolino dello stesso autore in vena di podismi in quota Rem, anticipa il gioiello musicale dell’album “Nostra Signora dei sogni cadenti” canzone-preghiera per senza patria dove la distesa sonora è un grande crocevia di chitarre elettriche, acustiche e mandolini, quasi un fiume sonoro principale invaso da continui affluenti armonici.  Una solista gravida di nostalgie west coast è a sua volta coadiuvata dall’ex aequo vocale di Edward Abbiati e sostenuta dai richiami di Lisa “Liz” Petty in un gioco di riverberi intermittenti che sembrano evocare la presenza di ipotetiche sirene da canyon. 

Il disco procede con una serie di canzoni ora regolari, efficaci e potenti come “Pace e libertà”, “Ottobre 1918” e “Novecento”, ora più dense di architetture e bassorilievi sonori.  E’ il caso di una “Invisibile” dove la triste vicenda degli operai della fabbrica S.L.O.I. di Trento viene resa magistralmente tra chitarre, trame ardenti di mandolino e una risoluzione di sax di Massimo Maltese tra il romantico e il lacerato.

O ancora di una “Io rimango qua” che declina un veloce, smanioso e trascinante rock’n’roll che si avvale dell’ottimo contributo alla slide di Maurizio “Gnola” Glielmo (Davide Van De Sfroos) e dell’ancora più convincente “Io non cadrò”, cadenzato di pregio costruito su chitarre arrembanti, accordi penetranti di Hammond e un chorus diretto, frontale e teso che avvince alla maniera dei grandi fino al breve e incendiario solo di elettrica.

Nel finale una “Sette piccoli indiani” che su un vivace rivestimento irlandese d’emigrazione declina in forma sardonica miserie da belpaese grazie anche al buon intervento vocale di Dario Gay, mentre la chiusura vera e propria è affidata al lungo strumentale “La nostra Primavera” tema melodico di stampo epico giostrato tra armonizzazioni acustiche e grandi disegni sonori dell’elettrica solista per una sorta di liturgia della rinascita.  Il cowboy della bassa ha ormai scoperto tutte le sue carte e dopo l’ultimo sorso di rum è pronto a riprendere la sua cavalcata.

 

 (Foto di Federico Sponza)