Di John Denver si può dire tutto. Ad esempio che è stato un artista easy listening per signore attempate e uomini poco avvezzi al giradischi, oppure un furbacchione che ha cavalcato qualcosa che assomigliava al country per svendere musica al miele con l’etichetta sbagliata. Forse i detrattori – quelli, in effetti, non sono mai mancati – potrebbero aggiungere diverse voci alla lista del “così non si fa musica”, inneggiando all’ultimo cantore a stelle e strisce dotato di chitarra e talento che però deve lavorare in segheria per mantenersi. Gli orrori dello star system, direbbero. Ma forse, in definitiva, non ce la racconterebbero giusta, dimenticando che il John Denver degli inizi era sì sentimentale, ma non così dolciastro come vorrebbero far intendere; dimenticando, soprattutto, che il cantautore di Roswell – prematuramente scomparso poco più di quindici anni fa in un tragico incidente aereo – era un finissimo e abile tessitore di melodie, di quelle che passano alla storia, di quelle che si imprimono nella mente e non escono più, di quelle, insomma, capaci di forgiare grandi canzoni che il tempo trasforma in classici. 



Tanti i capolavori che ci ha lasciato in eredità a partire dal primo album pubblicato nel lontano 1969, anche se Henry John Deutschendorf Jr. – questo ci segnala l’anagrafe – aveva già mosso i primi passi nel folk durante gli anni precedenti, quelli che videro la (ri)nascita di un genere finalmente da classifica. E se le sue melodie limpide e lineari sorrette da testi semplici e sentimentali poco si confacevano all’atmosfera del periodo, non dobbiamo dimenticare che gli ideali rivoluzionari erano rimasti sepolti nel fango di Woodstock e che proprio in quegli anni si stava affermando un altro tipo di cantautorato, più intimista e legato a riflessioni private e personali. 



Il sogno americano, in poche parole, stava scricchiolando sotto gli stivali della disillusione, e lo stesso Denver ne era perfettamente consapevole. Cantare sentimenti familiari, amore e natura, all’epoca, non era senz’altro fuori luogo, soprattutto se si considera che una canzone può trasmettere messaggi positivi e good vibrations anche se non è incazzata con il mondo intero e i suoi governanti.

A chi pronuncia la sentenza “John Denver con il country non ci azzecca niente” consigliamo di rispolverare – o magari di ascoltare con un po’ di attenzione – due album, che potrebbero essere i migliori della sua vasta discografia: Back Home Again e Windsong. Di country, in quelle canzoni, ce n’è parecchio, ve lo possiamo assicurare.



Un grande merito, comunque la si voglia vedere, a Denver va riconosciuto, e cioè quello di aver esportato nel mondo intero un genere fino ad allora abbastanza circoscritto all’interno dei confini degli States. E magari di aver “indirizzato” i gusti di tanti appassionati – compreso il sottoscritto – in un’epoca in cui la rete non esisteva e reperire informazioni non era poi così semplice.

Le sedici canzoni che compongono il tributo appena pubblicato dalla ATO Records, The Music Is You – dal titolo di una canzone del ragazzo di campagna che ringraziava Dio – regalano a tratti splendide interpretazioni da parte di alcuni dei più noti artisti d’oltreoceano (ma non solo). Per i più giovani, un’occasione per avvicinarsi alla musica di un gentile songwriter che ha lasciato una traccia importante nella stessa cultura americana; per le mezze età e per chi lo conosce bene, un modo per rivisitare alcune delle sue composizioni più belle illuminate da una luce diversa, in alcuni casi addirittura sorprendente.

Logico che le omissioni siano tante e talvolta incomprensibili (Rhymes And Reasons, ad esempio, non compare in scaletta), ma considerando un catalogo come il suo, con tante gemme sparpagliate qua e là in un arco temporale di quasi trent’anni, è certo che qualcuna sarebbe rimasta fuori anche nel caso l’operazione avesse previsto un doppio cd.

Certo è che di buone cose, nell’album, ce ne sono eccome, basti pensare alla grande Lucinda Williams che esegue alla sua maniera la trascinante e intima This Old Guitar, ballatona da capogiro e omaggio alla musica tutta; oppure alla personale versione di I Guess He’d Rather Be In Colorado che ci regala Mary Chapin Carpenter, capace quasi di trasformarla in una “sua” canzone, con quei toni soffusi e una classe limpida e cristallina. I My Morning Jacket di Jim James non sfigurano nella cover di uno dei capolavori del nostro,Leaving On A Jet Plane, un brano che all’epoca fu portato al successo dal trio folk delle meraviglie Peter, Paul & Mary, che sublimava in oro da classifica tutto ciò che decideva di cantare, mentre l’atteso Dave Matthews delude un po’ nella resa di Take Me To Tomorrow, che resta priva di quella personalità che ci si dovrebbe aspettare da uno come lui. 

La folksinger Kathleen Edwards (All Of My Memories), J Mascis e Sharon Van Etten (Prisoners), i promettenti Blind Pilot (The Eagle And The Hawk) e i solidi Edward Sharpe and the Magnetic Zeros (Wooden Indian) svolgono bene il loro compitino, mentre uno dei gruppi del momento, i Train, non esprime appieno le sue doti poppettare nella splendida Sunshine On My Shoulders, lasciando che l’ombra del “mestiere” la raffreddi leggermente. 

Piccoli peccati veniali ben assolti dagli Old Crow Medicine Show, che infondono energia bluegrass a una frizzante Back Home Again, oppure da Amos Lee, che infarcisce di soul e gran voce Some Days Are Diamonds, un gioiellino che forse nell’originale riluceva poco, vittima – quello sì – di arrangiamenti un po’ troppo leziosi. Il collega Allen Stone se la cava egregiamente al cospetto di Rocky Mountain High, altro brano cardine del catalogo denveriano, mentre la voce sofferta e unica di Brett Dennen (qui coadiuvato da Milow, un idolo pop di francobollo belga) si adagia con dolcezza sulle note di Annie’s Song, facendola rifulgere in tutta la sua bellezza. 

La canzone forse più famosa di John, e cioè Take Me Home, Country Roads, è affidata alle nobili tonalità di Brandi Carlile ed Emmylou Harris, che si intersecano e uniscono alla perfezione, senza sbavature, evidenziandone l’elemento folk, ma la sorpresa più grande arriva da Evan Dando, cantante dei Lemonheads, che trasforma Looking For Space in una cavalcata elettrica di impianto punk, pur mantenendo la linearità della struttura melodica originale. Degna di nota anche Darcy Farrow, il cui interprete Josh Ritter asseconda la matrice folk senza dimenticare di apporre il suo timbro.

Sono canzoni che, se ascoltate anche distrattamente e per la prima volta, ci mostrano un autore di caratura indubbiamente superiore, un artista che ci vedeva benissimo pur strizzando l’occhio alle classifiche, con una voce e una capacità esecutiva che farebbero impallidire tanti dei nuovi geni che calcano i palchi e colonizzano playlist e download moderni. John Denver è una delle dimostrazioni più significative che “vendere” non è una colpa, e che la qualità, seppur spesso “attenuata” da sonorità easy, non si erode se si usano arrangiamenti orchestrali al posto della sola chitarra. Per chi non ci crede, consiglio di dare un ascolto al Live in the USSR, registrato unplugged oltre la cortina di ferro nel 1985, un tour “storico” sotto molti punti di vista: John Denver, la sua chitarra acustica, la sua voce e il suo talento sproporzionato. Nient’altro. Avrei voluto esserne spettatore.