J.K Rowling, la creatrice di Harry Potter, ammise candidamente di aver pianto per ore, quando apprese alla radio del loro scioglimento. Il primo ministro inglese David Cameron raccontò divertito che l’unica volta che fu beccato senza biglietto in metropolitana, fu mentre andava a un loro concerto.
E quando nel 2006 la BBC 4 realizzò un sondaggio per scoprire chi fosse il personaggio inglese più influente a livello culturale, Morrissey si classificò al secondo posto, davanti a Paul McCartney e dietro solamente al celebre autore di documentari David Attenborough.
Nulla di quello che chiamiamo “Brit Pop” sarebbe mai esistito senza di loro. Ma anche dal punto di vista culturale, gli Smiths ebbero un impatto dirompente sulla Gran Bretagna degli anni ’80.
“Hand in glove”, il loro primo singolo, usciva esattamente 30 anni fa, nel 1983. Poco più di tre minuti di durata, introdotti da un’armonica che andava ad evocare, guarda un po’, proprio quella “Love me do” che 20 anni prima aveva dato il via all’epopea dei Beatles.
Erano in quattro anche gli Smiths ma, esattamente come quelli di Liverpool, anche loro vissero sull’intesa vincente di una coppia d’oro: Stephen Morrissey e Johnny Marr. Classe 1959 il primo, 1963 il secondo, entrambi figli di emigrati irlandesi, genitori fieri appartenenti di una working class comunque ben integrata all’interno della comunità di Manchester.
Già, proprio Manchester. La città che cambiò pelle il 4 giugno 1976, folgorata sulla via di Damasco da un concerto dei Sex Pistols a cui parteciparono 42 persone, di cui più della metà avrebbero poi ricoperto un ruolo fondamentale all’interno di quella scena musicale.
Fu proprio il fenomeno punk a scatenare l’inventiva di un numero impressionante di ragazzi, e da allora quella cupa città industriale, nella quale nessuno va semplicemente per fare turismo, non viene più ricordata solo per essere la dimora calcistica di City e United.
Morrissey aveva 17 anni quando vide i Sex Pistols in quella famosa sera. A suo modo però era già un veterano, dato che impazziva per i T. Rex di Marc Bolan (li aveva visti nel 1972, il suo primo concerto in assoluto), David Bowie e le New York Dolls.
Non condivideva però l’esuberanza dei suoi beniamini: le cronache (e lui stesso) ce lo ricordano come un adolescente timido e insicuro, che la crisi del rapporto tra i genitori aveva spinto a isolarsi in camera sua, dischi e libri come unica compagnia. E’ in quel periodo che nasce la passione per Oscar Wilde, così importante per l’immaginario scenico e testuale della futura band.
Dall’altra parte, John Maer, cognome successivamente cambiato in Marr per non rischiare un’omonimia col batterista dei Buzzcocks, che erano già una sorta di celebrità locali.
Cresce in una casa in cui si ascolta di tutto, dai Beatles a Tom Petty, da Rory Gallagher ad Hank Williams, passando per gli Everly Brothers. Di suo ci mette i T. Rex, David Bowie, gli Sparks, Patti Smith e altri nomi affini. E’ un autodidatta nato, suona la chitarra sopra i brani, li impara a memoria e dimostra una curiosità onnivora nell’andare a scovare influenze e nell’assimilare stili.
L’incontro tra i due fu quasi la scena di un film. Se mai verrà realizzata una pellicola su questo gruppo (lo hanno fatto per i Joy Division, potrebbe anche accadere prima o poi), il regista non avrebbe bisogno di inventarsi molto.
Nel 1982 Johnny trovò lavoro in un negozio di abbigliamento e conobbe Joe Moss, che era il proprietario dell’esercizio a fianco. I due avevano quasi la stessa età e condividevano la passione per la musica. Un giorno Marr disse a Joe che avrebbe voglia di trovare qualcuno con cui scrivere canzoni ed è proprio lui che gli consigliò di contattare Morrissey. Il quale aveva da poco esordito come cantante assieme ai Nosebleeds, una band che si sciolse subito ma che fece ugualmente parlare bene di sé nei pochi mesi che rimase in vita.
Fu così che qualche giorno dopo, in compagnia di un amico comune, Marr bussa alla porta di Morrissey. Che cosa si siano detti è impossibile dirlo ma è certo che iniziarono immediatamente a collaborare insieme. L’abilità del chitarrista nel destreggiarsi tra riff e successioni di accordi e l’intuito di Morrissey nel ricamarci sopra melodie vocali contorte ma vincenti, diedero abbastanza presto i loro frutti: nel giro di poche settimane vennero pronte già una decina di canzoni e l’idea di mettere in piedi una band surclassò quella di divenire un team di autori per conto di altri artisti e divenire così i nuovi Leiber/Stoller, il duo di songwriters così tanto ammirato da Marr.
Mike Joyce (batteria) e Andy Rourke (basso), vennero reclutati tra amici comuni. Erano due ottimi musicisti e grazie al loro apporto le canzoni della coppia creatrice decollarono davvero.
Si chiameranno The Smiths, scegliendo apposta un nome banale e insignificante (Smith è il cognome più diffuso in Gran Bretagna), quasi a volersi contrapporre ad una miriade di band dai monicker improbabili, ridondanti ed eccentrici come un certo synth pop che proprio in quegli anni si stava affermando.
Il resto fu normale trafila da gruppo rock emergente: i concerti (subito ottimamente recensiti da NME), la registrazione di un 7 pollici, il giro delle principali case discografiche, la firma del contratto.
Optarono per la Rough Trade di Geoff Travis, che aveva sede a Londra e che era un’etichetta piccola ma già piuttosto affermata. La EMI non li aveva voluti e la leggendaria Factory di Tony Wilson (quella dei Joy Division, tanto per intenderci), che pure li amava, navigava in cattive acque e decise che prendendoli li avrebbe penalizzati. Inutile dire che lo rimpiansero amaramente negli anni a venire.
“Hand in glove” arrivò nei negozi il 13 maggio. Si trattò della versione autoprodotta dalla band e finanziata da Joe Moss, che aveva deciso che sarebbe diventato il loro manager e che tanta parte avrà nel loro successo. Secondo la leggenda (smentita, ma non troppo, dallo stesso patron dell’etichetta, anni dopo), Johnny Marr avrebbe forzosamente messo in mano a Travis una copia del vinile, disturbandolo durante la pausa pranzo e dicendogli: “Ascolta questo, non è la solita roba!”.
Il diretto interessato racconta che si portò a casa il singolo, lo ascoltò tutto il weekend e la domenica sera chiamò Johnny al telefono: “Facciamo un disco.” disse lui. “Quando?” rispose il chitarrista. “Venite domani” fu la pronta risposta.
Un brano diretto, privo di ritornello ma con una melodia portante efficace che si evolveva in senso circolare, sapientemente condotta dalla voce di Morrissey. Un lavoro di chitarra apparentemente semplice e lineare, con un sound marcatamente jangle a ricordare i migliori Byrds, ma che in realtà era frutto di elaborazioni e sovraincisioni a tratti anche intricate.
Una canzone dalla forte carica pop, solare in apparenza ma con retrogusto malinconico impossibile da ignorare: “Se sei triste risultano deprimenti, se sei di buon umore sono una party band” ebbe a dichiarare qualche tempo fa Stephin Merritt dei Magnetic Fields, cogliendo perfettamente nel segno la peculiarità degli Smiths.
Morrissey non canta bene (non è una cosa che abbia mai imparato a fare, in verità) ma il suo timbro è unico e il suo carisma fuori dal comune: l’essenza stessa del suo personaggio costituirà almeno una buona metà del successo strepitoso che di lì a poco il gruppo avrà.
Il testo di “Hand in glove” racconta della spensieratezza che si prova nell’essere innamorati di qualcuno, nel vivere un rapporto speciale che sfida il mondo e te lo fa guardare con occhi diversi (“Il sole splende alle nostre spalle, no non è un amore qualunque, questo è differente perché siamo noi. Possiamo andare dove ci pare e tutto dipende da quanto mi stai vicino”). Ma non è tutto così semplice: l’espressione “Hand in glove” può significare “intesa perfetta” ma è anche uno slang che allude ad un rapporto omosessuale. E qua e là ci sono dei richiami ambigui, che fanno pensare che quell’amore adolescenziale possa nascondere qualcosa: “E se la gente ci fissa, lasciala guardare. Proprio non capisco e davvero non m’importa”. Cosa hanno di tanto speciale due ragazzi innamorati? Perché la gente dovrebbe fissarli?
Il mistero non verrà mai chiarito. Lo stesso Morrissey è sempre stato ultra reticente sulla sua vita sentimentale e i suoi testi futuri saranno quasi sempre disseminati di ambiguità di questo tipo, approfittando del fatto che la lingua inglese non distingue sempre esplicitamente il genere maschile da quello femminile nelle sue costruzioni grammaticali.
Per il resto, la scrittura del frontman ci metterà ben poco a distinguersi dalla massa, con quel suo utilizzo di parole ricercate e di immagini da pelle d’oca, frutto di una straordinaria capacità di assimilazione e di riutilizzo di una quantità immane di materiale letterario e cinematografico (da Wilde al kitchen-sink drama alla Shelagh Delaney, al Free Cinema degli anni ’50 e ’60). Il tutto sapientemente miscelato e rielaborato in maniera personalissima, secondo una tecnica che aveva molti punti in comune con quella già utilizzata da T.S. Eliot nella sua “The Waste Land”.
Lo stesso aveva fatto Johnny Marr con la chitarra: due decenni di musica rock fusi insieme nella sua sei corde, a creare un modo di suonare da cui nessun chitarrista in futuro avrebbe più potuto prescindere.
Sul lato B, una versione dal vivo di “Handsome Devil”, registrata alla storica Hacienda di Manchester durante una delle prime uscite della band. E’ un’esecuzione veloce, furiosa e dannatamente sporca ma c’è già tutta la potenza di quello che diventerà un altro grande classico. E la frase “There’s more to life than books, but not much more” (“Conta più la vita dei libri, ma non molto di più”), è già la miglior definizione che si possa dare dell’estetica di questa band.
Diventeranno grandi, grandissimi, ma dureranno meno dei Beatles. Quattro anni appena, quattro album (l’ultimo dei quali uscito a scioglimento già avvenuto), una marea di singoli, per un totale di poco meno di 70 brani.
Ma non è questo lo spazio per raccontare la loro storia. Oggi si ricorda semplicemente quel pezzo straordinario che ha dato inizio al tutto. E non c’è da sperare che si riformino: non sarebbe mai la stessa cosa. Meglio piuttosto che qualcun altro faccia come loro 30 anni fa: utilizzare l’ordinario per mettere a soqquadro il mondo del rock. Ce ne sarebbe davvero bisogno.