A un certo punto, mentre si ascolta il nuovo album dal vivo della band di Berkeley, sorge spontanea una affermazione, una esclamazione, una domanda retorica: “ma quanto suonano bene questi?”. Succede perché a vent’anni dal loro esordio, i Counting Crows hanno raggiunto una maturità, una bravura tali da suonare come dei classici e incantare il pubblico con il loro sound, maestoso, mai banale seppur così tradizionale, con il loro incedere che non ammette sbavature e che pian piano ti entra nel cuore.



Ennesimo live dunque, un segno, per i più critici, che potrebbe dimostrare una certa difficoltà nel produrre nuove canzoni; del resto, andando a ritroso nella loro discografia, prima dell’album di covers“Underwater sunshine” c’era stato il concerto celebrativo di “August and everything after”, l’album “Saturday nights and Sundays morning” composto quasi tutto di pezzi risalenti a parecchi anni prima (alcuni anche del periodo proprio di “August…”), una raccolta, il live “New Amsterdam”; insomma, bisogna risalire al 2002, ai tempi del bel disco “Hard Candy” per trovare nuove canzoni, se non vogliamo contare il divertissement “Accidentaly in love” presente nella colonna sonora di Shrek 2 (dove tra l’altro valorizza perfettamente una scena fantastica). Ma sia ben chiaro che fino a quando i CC continueranno a proporre spettacoli così convincenti, nessuno avrà da ridire. 



Passati recentemente dall’Europa, ma ahimè non dall’Italia, da cui mancano da tempo immemore (dieci anni? Un festival a Roma o cose simili) i Counting Crows dal vivo sono uno spettacolo di una qualità davvero rara, per il periodo.

L’inizio acustico del disco è riservato ad una bella versione di “Girl from the North Country”, perché Bob Dylan è sempre presente nel cuore di chi vent’anni fa si augurava di essere come lui (I wanna be Bob Dylan – “Mister Jones”).

Dopo di che si attacca la spina e si torna alle origini, a quella “Round here” che dava il là alla loro carriera. Come sempre, nel break centrale la band lascia spazio ad una jam e soprattutto al solito flusso di coscienza di Adam Duritz, che sembra vivere ogni show come una specie di seduta psicanalitica, lasciando che le sue emozioni fluiscano al microfono liberamente, mentre la band lo segue pronta a rituffarsi nel pezzo.



Untitled (love songs) è presa dal loro album di cover e viene riproposta in maniera fedele e molto sentita; colpisce soprattutto la coralità dell’esecuzione, con le voci che si fondono insieme; Four days proviene da “This desert life”, l’album del 1999 che fece fatica ad emergere, costretto tra due giganti come lo erano i loro due primi dischi; album che contiene però alcune perle spesso dimenticate e sottovalutate, come questa, vero inno alla ricerca di un benessere più spirituale che materiale, una domanda di serenità in un momento difficile.

Hospital è una canzone di Coby Brown resa con energia e un bel ritmo di batteria che regge la corda alla voce di Duritz.

Con Carriage, tratta da Hard Candy, ecco le tematiche classiche dei Counting Crows, la fine di un amore, le sensazioni di vuoto e di abbandono, il silenzio che ci circonda; una tromba in lontananza piange con Duritz, che in tutto il disco canta benissimo, con molto trasporto e intensità. Con Start Again andiamo a ripescare i Teenage Fanclub ed è il mandolino di David Immergluck a dare spettacolo, mentre di nuovo colpisce la capacità della band di creare delle melodie vocali così intriganti.

Vorrei essere una ragazza, così tu mi crederesti, ecco un picco assoluto nella carriera dei Counting Crows, tratta anch’essa da This Desert Life; I wish I was a girl parla di e con una ragazza innamorata ma terribilmente sospettosa (la storia è autobiografica) e il cantante nello struggersi per meritare la sua fiducia le dice che forse essere una ragazza anche lui sarebbe l’unica speranza per farsi credere; ma le cose non vanno come sperato e lui è talmente tormentato che se gli aprissero la testa, con i pensieri che lo tormentano ci farebbero addirittura un film ad hollywood; curiosità: la protagonista della canzone si chiama Elizabeth, la stessa a cui nel disco prima Adam Duritz cantava una strepitosa ninna-nanna augurandole la buonanotte (Goodnight Elizabeth). È importante, nella carriera di un gruppo, avere dei riferimenti, dei personaggi che in qualche modo si ripropongono e crescono con la band; sicuramente Elizabeth è una di queste, una delle tante cause dell’insonnia di Duritz.

Chissà, forse la carenza compositiva di cui si parlava all’inizio dipende dal fatto che dopo anni, Adam riesce finalmente a dormire sereno?

Sundays è il primo brano tratto da “Saturday mornings and…” e schiaccia un po’ il pedale del ritmo, con una bella chitarra dietro le spalle di Duritz a dare un tocco funk.

Con Mercury si ritorna al primo periodo, il brano è tratto da “Recovering the satellites” ed ha un inizio blues con tanto di slide e percussioni quasi tex-mex; la canzone, ovviamente, parla di rapporti personali e soprattutto di rapporti andati a finire male, di persone che si avvelenano reciprocamente, si feriscono, si colpiscono duramente ma non riescono a staccarsi l’uno dall’altra. Perché alla fine siamo un po’ tutti vittime delle nostre stesse risposte e come canta Adam, questa non è una canzone sull’amore, bensì sulla dipendenza.

Friend of the devil è dei Grateful Dead meno lisergici e più rurali, anche se si parla di reati, fuga e diavoli, ma l’esecuzione in punta di chitarra acustica è davvero eccezionale. A costo di ripetermi, anche qui le voci della band si fondono insieme in modo mirabile, con Duritz a guidare il coro e gli altri a creare un tappeto quasi gospel, nonostante si parli di amici del diavolo; Charlie Gillingham ed il suo pianoforte ricamano trame delicate dai sapori country.

Che dire di Rain King, in questa versione ricca di stop and go ma sempre comunque travolgente? Quello che è probabilmente il manifesto della band viene eseguito con grinta e trasporto; il Re della pioggia viene sempre presentato nella sua ricchissima confusione, nel suo casino mentale, in quell’enorme delirio che deve essere la sua vita, a cui si intrecciano assoli di chitarra e soliloqui di Duritz, che cita apertamente gli Elbow e la loroLippy Kids (Do They know those days are golden? Build a rocket boys!!). Sempre un gran bel sentire. Capolavoro.

Siamo al finale, riecco “Saturdays nights…” con Le ballet d’or, titolo francese e melodia delicata ed acustica, che lascia spazio alla bella esecuzione vocale del frontman. Up all night invece ci presenta Frankie Miller, bluesman gallese sconosciuto ai più che dà il suo nome a questa storia di invisibilità, rimorsi, solitudine, con un bel pianoforte a dare la melodia e la voce di Duritz che racconta l’ennesimo personaggio triste che fatica ad emergere e persino ad uscire da casa sua.

Il pezzo finale, You ain’t going nowhere, ci dà l’esatta cifra stilistica dei Counting Crows del 2013: i più vicini e meritori eredi della Band. Un andamento che sta tra la “Big Pink” e la Rolling Thunder Revue, rock and roll delle origini, americana, country-rock, chiamatelo come volete, ma in questi 4 minuti e rotti i Counting Crows sbaragliano il campo da molti pretendenti e si affermano come una delle migliori band in circolazione, relativamente a questo classic rock che evidentemente ha ancora molto da dire e da dare.

E se proprio Adam Duritz non soffre più di insonnia e non ha idee per nuove canzoni, che non si stanchino mai di suonare dal vivo.

(Il Cala)