Non è che abbia assistito a chissà quanti concerti del Boss. Ne ho visti abbastanza da farmi dare del matto da tutti gli amici che sono “fuori dal giro”, ma non così tanti da poter pensare di competere con certi personaggi ai limiti del mitologico che normalmente si incontrano nelle ore precedenti lo show, quelle della coda per l’altrettanto mitologico braccialetto di accesso al pit.
Detto questo, se dovessi stilare una personale top five degli show a cui ho assistito, tre posizioni sarebbero senz’altro occupate dai concerti di San Siro.
Sarò anche poco originale, ma non ci posso fare nulla: ogni volta che Bruce torna in quello stadio, qualcosa di particolare accade. E pensare che io nemmeno ce lo vorrei vedere Springsteen, a San Siro. Troppo dispersivo l’ambiente, troppi problemi coi volumi. E poi i concerti negli stadi mi sono sempre sembrati un po’ pacchiani. Niente a che vedere con la bolgia dei palazzetti, quando migliaia di voci all’unisono intonano le parole di tutte le canzoni, anche di quelle più sconosciute.
Però San Siro è San Siro: l’ha detto anche lui più di una volta, che quel posto è speciale. Tanto che se si eccettuano certe leggendarie venue americane, come il Giants Stadium o lo Yankee Stadium di New York, calcate decine di volte in carriera, l’impianto milanese rimane uno dei pochissimi in Europa che abbia ospitato il rocker del New Jersey per quattro volte. Che diventeranno cinque il 3 giugno, quando Bruce vi suonerà la terza delle quattro date programmate in questa nuova leg europea del tour di “Wrecking Ball”.
E allora ecco qui, per chi c’era e chi non c’era, qualche piccolo frammento dei tre show springsteeniani al “Giuseppe Meazza” di Milano. Nella speranza che anche quest’anno ci sia in serbo qualche bella sorpresa per noi.
San Siro 2003 – The Rising Tour. Sarà ricordato in eterno come “il concerto della pioggia”. O sarebbe meglio dire “del diluvio”. Chi c’era non se lo dimenticherà più: un’ora circa di doccia tropicale, che si riversò su Milano quando la E Street Band era sul palco da poco più di mezz’ora. “Milano Thunder”: questo il titolo del bootleg della serata e mai definizione fu più azzeccata.
Neppure la scaramantica cover di “Who’ll stop the rain” riuscì a migliorare la situazione. Dal pit, tuttavia, non si mosse nessuno. Migliaia di persone continuarono imperterrite a saltare e a ballare, impressionando Bruce al punto tale da fargli decidere di mettersi in testa un cappello da cowboy e di uscire dalle coperture del palco durante “Waitin’ on a sunny day”, per prendersi la pioggia e “solidarizzare” con i fan. Immagini che fecero il giro del mondo, insieme a quel “pazzi italiani, pazzi!” che ci rese più orgogliosi che mai.
Io ovviamente ero lì in mezzo. Si trattava soltanto del mio terzo show, ma avevo già visto uno dei più belli di sempre, quello di Bologna dell’ottobre 2002, un concerto che non basterebbe un libro per raccontarlo. A San Siro conquistai il mio primo pit (che era una novità assoluta di quella leg estiva) e il fatto di avere la band a pochi metri fu già un punto di valore non indifferente.
La performance fu energica e intensa, con una band compatta e ridotta all’osso, dato che non erano ancora stati inseriti i cori e la sezione fiati che avremmo visto negli anni successivi.
L’attacco con “The promised land” fu tra i più efficaci che io ricordi ma già nei primi minuti furono sparati a mille proiettili letali come “My love will not let you down” e “Darkness on the edge of town”, che letteralmente non fecero prigionieri.
A ben guardare, la scaletta fu piuttosto ordinaria ma a me sembrò superlativa, per motivi soprattutto affettivi. Sentii infatti per la prima volta alcune tra le mie canzoni preferite: “The river” (il culmine assoluto del diluvio ma davvero non me ne accorsi), “Bobby Jean” e in particolare una incendiaria “Rosalita”, che concluse il tutto e che fu suonata per la primissima volta in quel tour.
Ma ci fu anche “Growin’ up”, col break centrale in cui Bruce ricordò il concerto del 1985 e disse ai suoi fan in perfetto italiano che “siamo cresciuti insieme”. E ancora, l’inimmaginabile regalo di “Follow that dream”, il brano di Elvis che aveva rielaborato e inciso nel 1980 ma che a tutt’oggi non è mai stato pubblicato. E’ una delle favorite dei collezionisti di rarità e quando l’abbiamo orecchiata durante il soundcheck, non ci credeva nessuno che ce l’avrebbe fatta alla sera.
Un concerto leggendario, che volente o nolente fu costretto a saziare la nostra fame di E Street Band. Sarebbero infatti dovuti trascorrere quattro lunghi anni, prima di vedere di nuovo Bruce Springsteen andare in tour con i suoi amici di sempre.
San Siro 2008 – Magic Tour. Cinque anni dopo. C’era stato il tour acustico in solitaria, il tour folk con la Seeger Session Band, entrambi spettacoli meravigliosi, ma il ritorno al rock era quello che tutti stavano aspettando. La gioia del come back fu purtroppo offuscata dalla tristezza per la scomparsa dell’organista Danny Federici, avvenuta in aprile al termine di una lunga battaglia contro un tumore.
Di quella data ricordo soprattutto il caldo infernale e il fatto che, per motivi di lavoro, avevo dovuto rinunciare al pit.
Poco male, perché quello che accadde quella sera superò ogni mia più rosea aspettativa. Il concerto del 2008 sarà probabilmente ricordato per la setlist. Non solo per il numero delle canzoni suonate (29, una rarità all’epoca) ma anche per le chicche da fan sfegatato che vennero piazzate tra un classico e l’altro. “Darkness on the edge of town” fece la parte del leone. Accanto ai soliti pezzi suonati pressoché ogni sera, arrivarono “Candy’s room” (ho ancora in mente il boato del pubblico ai primissimi tocchi di charleston) e soprattutto una meravigliosa “Racing in the street”, la canzone che ogni fan di Springsteen vorrebbe sentire tutte le sere e che invece lui, sadicamente, nega assai volentieri. Non so se fu tra le più belle versioni mai eseguite di quel pezzo, ma sicuramente lo fu per me. La coda finale del pianoforte di Roy Bittan mi fece davvero venire le lacrime agli occhi. Poi ci fu anche una indiavolata “Because the night”, che l’Italia non sentiva da quel mitico concerto del 1985, esordio assoluto del Boss nel nostro paese. E sul fronte delle richieste, che proprio in quel tour furono inaugurate, ci beccammo addirittura “None but the brave”, outtake del periodo “Born in the USA”, che era stata pubblicata solo pochi anni prima e che fece in quell’occasione probabilmente la sua seconda o terza uscita live. Tanto che i nostri sbagliarono clamorosamente l’attacco e ci risero su in maniera sguaiata.
La presenza di “Magic” era già stata pesantemente ridimensionata rispetto alla leg invernale ma ricordo che due brani come “Last to die” e “Long walk home” fecero lo stesso una bellissima figura. Peccato che col tempo siano stati quasi del tutto accantonati.
La cosa veramente pazzesca però accadde durante i bis. Al di là della durata chilometrica (ma a questo eravamo abituati), quello che fulminò i presenti fu la mazzata del “Detroit Medley”, il pout pourri di classici rock anni ’60 che furono un cavallo di battaglia della band da fine anni ’70 al tour di “Born in the USA”. Negli ultimi anni, le esecuzioni di quei pezzi erano state più uniche che rare, per cui ci sentimmo degli autentici privilegiati.
Un mese dopo andai a Barcellona, per la chiusura del tour europeo. Inutile dire che fu bellissimo, ma non fu come quella torrida sera milanese del 25 giugno.
San Siro 2012 – Wrecking Ball tour. Il concerto del 2008 fu ricordato anche per la denuncia che l’organizzatore Claudio Trotta di Barley Arts si beccò per aver permesso a Springsteen di suonare oltre l’orario consentito dal regolamento comunale. E difatti l’anno successivo, per il disappunto di molti, il carrozzone del “Working on a dream tour” evitò di fare tappa a Milano.
Tante cose sono cambiate, negli ultimi quattro anni: una su tutte, la morte di Clarence Clemons, storico sassofonista e vera colonna portante della E Street Band sin dalla sua fondazione. Gli anni passano e nessuno vive per sempre, neppure i miti del rock ‘n roll. Springsteen sembrava essersene reso conto perfettamente, tanto che nelle date di supporto a “Wrecking Ball” (un disco solido e coerente, contrariamente al piattume di “Working on a dream”) aveva iniziato a suonare ogni sera come se fosse l’ultima.
Arrivato a San Siro per la quarta volta, Springsteen stette sul palco per 3 ore e 40 minuti filati, senza pausa. Faceva così solo nei suoi anni d’oro, nel periodo ’78-80 ma allora aveva trent’anni di meno. Fu quella la prima volta che mi stancai prima io di lui. “Ok, hai vinto – pensai all’ennesimo giro di ‘Twist and shout’ – hai vinto, non ce la facciamo più, facci andare a casa!”. E lui lì imperterrito a urlare “Shake it up baby”, con Little Steven che gli faceva l’eco, anche lui totalmente su di giri. Fu una festa inaudita, una dichiarazione di voglia di vivere e di amore per il proprio pubblico ancora più vertiginosa che negli anni precedenti.
E come altre volte accadde, anche quella sera San Siro funse da catalizzatore: da quel momento in avanti, i concerti europei sarebbero diventati sempre più lunghi, fino a superare le 4 ore di quello di chiusura in quel di Helsinki, Finlandia.
Ma per me, San Siro 2012 volle dire soprattutto “The promise”, il brano per piano e voce che Bruce scrisse nel 1978 e pubblicò solo 20 anni dopo. Il brano che è essenziale per capire tutta la sua poetica, quello in cui ha messo tutto sé stesso. E anche qui, il brano che è un po’ come certe figurine dei calciatori negli anni ’60: tutti lo vogliono, ma non arriva mai. E invece quella sera arrivò. E non mi vergogno a dire che non riuscii a trattenere le lacrime.
Tra poco, finalmente, si replica. Qualcuno dirà che questa volta ha esagerato, che due passaggi in un anno sono troppi, che ormai si è inflazionato, che non è più come una volta, ecc.
Può darsi che qualcosa di vero ci sia. Dopo tutto non potrà sostenere ancora per molto questi ritmi e anche lui lo sa.
Eppure, qualcosa mi dice che anche a questo giro mr. Springsteen saprà stupirci. Cosa potrebbe stupire me? L’esecuzione integrale in acustico di “Nebraska”…