Sabato 18 maggio è andato in scena alla Scala Götterdämerung (“Il Crepuscolo degli Dei”), ultima “giornata” della tetralogia L’Anello del Nibelungo (in breve il Ring ) di Richard Wagner. L’opera, co-prodotta con la Staatsoper-unter-den-Linden di Berlino, verrà replicata a Milano sino al 7 giugno ma tornerà alla Scala il 22 e il 29 giugno al termine dell’esecuzione di due cicli completi del Ring. Il teatro non era pieno forse perché il pubblico di un sabato sera è stato terrorizzato dall’annuncio che, intervalli compresi, lo spettacolo sarebbe durato poco più di sei ore (con ingresso alle 18 ed uscita dopo le 24 – sotto una pioggia battente) sia perché non concertava Daniel Barenboim, infortunato a causa di una brutta caduta e costretto ad essere lontano dal podio almeno sino all’inizio di giugno. Chi è rimasto a casa per una di queste due determinanti ha perso uno dei migliori spettacoli scaligeri delle ultime stagioni.



Per apprezzarlo occorre guardare, a ritroso, all’intero Ring Scala-Staatsoper di cui è stata presentata un’opera l’anno, in attesa di vedere l’intero ciclo tra poche settimane. In sintesi, è dal 1963 che la Scala non presentava un Ring di questo livello. Nell’arco di questi cinquant’anni è stato iniziato, alla metà degli Anni Settanta, un Ring rimasto incompleto per dissapori tra il direttore musicale Wolfgang Sawallisch, da un lato, e il regista e lo scenografo, Luca Ronconi e Pier Luigi Pizzi, dall’altro: l’intero progetto è stato, poi, portato a Firenze, con la concertazione di Zubin Mehta. Negli Anni Novanta, Riccardo Muti si è cimentato con un Ring da lui concepito: ne è risultata una delle pagine meno gloriose della sala del Piermarini: un progetto scombinato in cui, ad esempio, il “prologo” è stato presentato (in versione da concerto) l’anno dopo la messa in scena della “prima giornata”, le regie erano disomogenee, i cast traballanti e una concertazione verdiana più che wagneriana. Nel frattempo, Firenze e Roma proponevano due edizioni di livello del Ring, Venezia e Torino ne offrivano di dignitosissime e anche Bari e Catania ne presentavano di decorose pur se tradizionali.



Non abbiamo fatto sconti a questo Ring scaligero e berlinese, criticando soprattutto la drammaturgia e la regia di Guy Cassiers e dell’équipe di Tonneelhuis che, specialmente, nel “prologo” ci è parsa troppo carica di una simbologia politica, e sociale, poco adatta al grande lavoro di Wagner. Abbiamo anche criticato i tempi eccessivamente dilatati e solenni di Barenboim (così differenti rispetto a quelli del Ring che diresse a Bayreuth, con la regia di Kupfer, circa un quarto di secolo fa (e di cui esistono ottimi DvD). Occorre dire che drammaturgia, regia, impianto scenico, proiezioni e mimi sono parsi gradualmente più in linea con la parte musicale via via che il Ring si dipanava e dal mondo degli Dei germanici si passava a quello degli uomini. Nell’ambito di una politica molto terrena assume significato leggere lo sterminato lavoro come lotta degli indignados o simili nei confronti di poteri costituiti ormai logoro. In fin dei conti, siamo su un’estensione di quanto Chéreau fece a Bayreuth nel 1976 e Ronconi-Pizzi a Firenze nel 1979-81.



Questa lettura politica si adatta bene a Götterdämerung dove le divinità appaiono principalmente nel racconto di una Valchiria scorata (e che vede il “crepuscolo” di un intero universo), in tre Norme che hanno il presagio della fine e nelle tre figlie del Reno che ottengono il riscatto della natura primigenia. Il dramma è soprattutto negli intrighi di potere (e di sesso) nel Palazzo in cui l’ingenuo Sigfrido resta imbrigliato. Sono tali da richiedere l’olocausto di Brunilde e la fine del vecchio ordine nella speranza (il grande accordo in mi bemolle maggiore con cui termina la tetralogia) di un mondo migliore. Götterdämerung è anche l’opera del Ring in cui l’eros (sparito dai palcoscenici italiani) è più declinato: il risveglio di Sigfrido e Brunilde dopo la notte d’amore, la seduzione di Sigfrido da parte di Gutrune, il bruto desiderio di sesso da parte di Hagen, lo scambio di coppie (che occupa gran parte del secondo atto), i giochi erotici di Sigfrido con le figlie del Reno, il ricordo sia di Sigfrido sia di Brunilde della prima volta che fecero l’amore. Guy Cassiers e la sua squadra colgono bene questi aspetti anche se avremmo preferito colori meno nordici, specialmente nelle scene dove il Reno e la natura sono protagonisti. Occorre sottolineare l’alta qualità della recitazione di tutti i tredici solisti – frutto non solo di prove ma anche del fatto che questoGötterdämerung arriva alla Scala dopo numerose repliche a Berlino.

Andiamo alla parte musicale. Ha diretto Karl-Heinz Steffens: una concertazione puntuale , rispettosa dei tempi quali previsti da Wagner e (grazie a un’orchestra in grande spolvero) tale da comunicare le tensione necessaria. Meno solenne di Barenboim ma più intenso e tale da comunicare la drammaturgia con efficacia al pubblico – come intendeva Wagner con il musikdrama. Götterdämerung è anche l’unica opera del Ring con un ruolo per il coro – vero protagonista del secondo atto e di parte del terzo atto. Bruno Casoni ha diretto in modo eccellente il complesso scaligero. Di grande qualità il cast vocale in generale, eccelle la Brunilde di Iréne Theorin che ha, tra l’altro, il peso della grande scena finale. Lance Ryan è un Sigfrido generoso ma con qualche difficoltà con la “mezza voce”. La vocalità di Waltraud Meier comincia a risentire degli anni che passano , ed erra di nota nel finale del duetto del primo atto. Mikhail Petrenko è un Hagen di grande volume e duttilità ma con un timbro forse troppo chiaro. Grave come si vuole l’Alberico di Johannes Martin Kränze. Adeguatamente perversi il Gunter di Gerd Grochowski e la Gutrune di Anna Sumuil. Buoni gli altri. Meritate ovazioni al termine dello spettacolo.