Un gruppo progressive rock oggi ripropone intatta l’antica questione sul senso di quella musica e della relativa delimitazione del genere.  Antipatica, limitante e irrespirabile come tutte le definizioni che altro non sembrano indicare che una netiquette cui attenersi, una deontologia da rispettare chiusi nelle ideologiche roccaforti di giacche e cravatte strozzacollo o nel prontuario fornito da una crusca moderna e autoreferenziale.  E la ragione è presto detta.  Negli anni ’70 cui comunemente si riferisce l’espansione massima di quella musica la definizione “prog” non esisteva, non c’era altro che l’aggiunta delle qualificazioni sinfonico, art o colto alla espressione cardine rock o rock’n’roll. Partita chiusa.  I grandi artisti di quel filone fatto di partenze e dipartite continue altro non erano che veri e propri esponenti della canzone d’autore in cerca di nuove sfide, rotte misteriose e nuovi stimoli all’interno del grande cammino comune della musica rock.



Negli anni molto, troppo di questo si è perso e ciò che ha determinato la trasformazione di quella vera e autentica insurrezione di cuori e anime in quella definizione sinonimo di un malinteso nozionismo tutto tecnica e bullismo strumentale, è da ricercarsi probabilmente in quella deriva strutturalistica mutuata dai ricorrenti eccessi proposti da certe fasi di Emerson Lake & Palmer e adepti talora persino più incalliti.



La band italiana Tugs – di stanza a Livorno – rappresenta un nuovo tassello in questa sfida giocata passo dopo passo, canzone dopo canzone, album dopo album dove l’elemento di maggior interesse è proprio offerto da quel tentativo di riposizionare l’approccio a quella musica ponendo sguardo e cuore a quel fremito d’autore delle origini.  Da un lato la storia – un concept – rappresenta forse l’elemento più rischioso di quella riappropriazione, troppo spesso usato e abusato oltre ogni urgenza e necessità.  Dall’altro la musica si mostra forte di un sincero, dedito e tenace tentativo di rifarsi all’originale impeto visionario dei grandi songwriter del genere.  



Ecco allora Europa Minor, buon disco che ricerca il più possibile l’essenzialità nel riportare alla luce i tesori perduti di quella musica, che ammicca senza strafare e arricchisce il tessuto melodico-armonico senza scavalcare la musica stessa ma spesso suggerendo e lasciando un velato senso di mistero che non corrompe l’innocenza dell’attesa.

Il concept è ben rappresentato da una foto che campeggia nel primo piano del booklet interno che ritrae l’Europa come regina che cammina bendata, un po’ dea un po’ sonnambula.  Il racconto riflette le varie evoluzioni della storia del vecchio continente con slanci, recessi, cadute e anelito di rinascita tra guerre, fasti monarchici e sommovimenti dell’est continentale.  Il cuore del gruppo è formato da Pietro Contorno (voce e chitarra), Marco Susini (tastiere), Nicola Melani (chitarre), Bruno Rotolo (basso) e Fabio Giannitrapani (batteria, percussioni), accompagnati da un manipolo di musicisti addetti a nutrire il sound tra archi, flauti, corde addizionali e percussioni. 

Operativi sin dalla transizione tra la fine degli anni settanta e l’ingresso nella decade successiva sotto forma di progetti contesi tra musica e teatro, forti di un repertorio formatosi pazientemente dal vivo nel corso degli anni, debuttano ufficialmente con questa sorta di opera rock benedetta da una certa forbita leggerezza e un’agilità da musical.  Il brano di apertura Waterloo, tra i migliori del lavoro, ben rappresenta la sintesi del loro approccio.  Incipit che richiama il folk d’autore di un Branduardi, canzone che si distende all’insegna di un rock teso, asciutto e squadrato, finale che dilaga combinando e ridisegnando trame tastieristiche e portamenti eleganti mutuati da Genesis, Orme e PFM.

E se la minisuite un po’contorta de Il re e il poeta realizza appieno il lato oscuro dei rischi e degli azzardi di certo strutturalismo di facciata sempre in agguato, gli episodi successivi recuperano in maniera via via sempre più definita e convincente un senso di equilibrio dove l’estro strumentale convive felicemente con la sana risolutezza della forma canzone.   Pietroburgo 1824 si muove con astuzia e forza propositiva tra danze russe e cenni di canzone retrò, mentre il songwriting si attesta su buoni livelli sia nelle escursioni strumentali de Il sogno di Jennifer che in quelle più narrative di Canzone per un anno eNanou.

 

 

 

Ma è forse la parte centrale del lavoro che riserva gli episodi che lasciano il segno migliore, più fecondo e futuribile.  Le colline di Ems è uno di quei brani che conquistano per audacia e ispirazione in un collage che tira dentro musica d’autore, trip sonori e dreamy rock proponendo un’evoluzione efficacissima tra ricorrenti pennellate di lead guitar e una voce che qui si snoda espressiva e bruciante.

Non sono da meno Il pianto con la sua alternanza tra precisi stacchi strumentali e solenni cadenze orientali e per finire una intima e accorata I bambini d’inverno avvolgente e liquida ballata d’autore condotta da un malinconico e incisivo carosello di violino ben appoggiato da schegge di piano e dal buon gioco complessivo dell’arrangiamento.  In un mercato – di genere e di specie – dove la presenza di dischi buoni è sempre più merce rara, l’esordio dei Tugs vale i settantacinque minuti spesi dalla postazione d’ascolto.