E poi, in un momento, ci si rende conto che sono quarant’anni da quando Tom Waits, da Pomona, California, ha iniziato la sua carriera musicale. Altri tempi, altre misure, altro mondo, musicale e non. Chi scrive, nel 1973 non era nemmeno nato, suo padre aveva appena vent’anni, sua madre nemmeno quelli. E anche Tom Waits stesso, probabilmente, non era lo stesso. Non era quella specie di istrione patafisico, uncinato e bourboneggiante (come il pianista da night-club in cui si incarnò nel cartone animato Shrek 2) come appare oggi. A partire dalla voce. Una voce non ancora roca e mefistofelica, che sarà in futuro sì il frutto di una cura a base di alcool e sigarette ma anche di studi approfonditi e di una tecnica invisibile ma raffinatissima.



La storia inizia tanti anni fa. C’era una volta un personaggio chiamato David Geffen. Uno di quei produttori di cui oggi si sente la mancanza. Uno di quelli che riuscivano, con abilità degna di un alchimista che ha trovato il segreto della pietra filosofale, a coniugare gli affari (oggi si direbbe – perdonate la becera italianizzazione – “il bìsnes”) con l’amore per la musica. Questo individuo, nato nello stato di New York ma Californiano d’adozione, si accorse presto del fermento musicale della West Coast, orfana dei grandi sogni utopici degli anni ’60, morti idealmente insieme ai protagonisti di Easy Riders e più prosaicamente insieme al povero Meredith Hunter, massacrato dagli Hell’s Angels ad Altamont. Da quelle parti c’era gente come Joni Mitchell, Jackson Browne, gli Eagles, Warren Zevon, solo per fare alcuni nomi, che dalle istanze collettive si stava spostando verso la narrazione in musica delle proprie debolezze e fragilità individuali, dei propri desideri, del bisogno intimo d’amore e dalle difficoltà di affrontare un mondo sempre più spietato.



Tra essi c’era anche Tom Waits. Un ragazzo poco più che ventitreenne, che aveva lavorato come pianista di night, che raccontava di essere nato sul sedile posteriore di una Cadillac (ma questa l’aveva già raccontata Dean Moriarty…) e che, si dice, teneva i testi di Bob Dylan appesi nei punti strategici e più in vista della propria casa. Bob Dylan, con la sua capacità verbale, ed il jazz, quello fumoso e notturno, da luci soffuse dell’ora di chiusura, erano le sue guide ispiratrici. Si potrebbero definire le sue “muse”, almeno insieme al bourbon e alle sigarette.

Si era offerto di produrlo Jerry Yester, già membro dei Lovin’ Spoonful di John Sebastian (uno dei “reduci” di Woodstock) e produttore di due dischi seminali come Goodbye and Hello ed Happy Sad di Tim Buckley (che, a sua volta, pochi anni dopo prenderà in prestito a Waits una delle sue canzoni più belle…ma questa è un’altra storia). A caldeggiare il suo nome a Geffen era stato invece Herb Cohen, un pazzoide geniale che aveva scoperto alcuni anni prima un altro folle come Frank Zappa e aveva ottenuto carta bianca per lui, che con i suoi Mothers of Inventions diede alle stampe l’allucinato e improponibile album “Freak out!”.



Fu così che, dopo una serie di provini notturni registrati a casa di Yester, a fine 1972 Tom Waits si presentò negli studi della Asylum, accompagnato da uno sparuto gruppo di musicisti.

Non sappiamo come siano andate le sessions, non eravamo là né abbiamo testimonianze attendibili. Eppure, dai solchi dell’album, fra un fruscio e l’altro della puntina (già, perché certi dischi DEVONO essere ascoltati in vinile), ci piace pensare che a suonarci dentro ci fosse una band notturna di gatti innamorati più che uno stuolo di professionisti della sala di incisione. Perché, sì, il suono di Closing Time è il suono che proviene dai momenti in cui scende la sera e ci si trova da soli con una bottiglia di Southern Confort e gli occhi azzurri di una donna perduta nella mente. 

Non c’è niente di perfetto in Closing Time. La voce di Tom Waits è incerta e tremula, lontana dalla teatralità degli anni a venire. Il pianoforte e la chitarra sembrano aver bisogno di un’accordatura alla fine di ogni pezzo. La sezione ritmica suona in punta di dita. La tromba che fa capolino in alcuni pezzi sembra essere quella di un vecchio musicista che scandisce le note alla luna piena affacciato alla propria finestra. Perfino gli archi, nelle loro rare apparizioni sembrano usciti da un altro spazio ed un altro tempo.

D’altronde, il mood dell’album può essere compreso già soltanto nel gettare uno sguardo alla copertina, dove un Waits giovanissimo e pensoso siede a un malandato pianoforte a muro, sul quale poggiano un portacenere colmo, un bicchiere mezzo pieno e una bottiglia presumibilmente vuota. Nella penombra si intravede un orologio, appeso sopra il piano, che segna le cinque meno un quarto. L’ora di chiusura, quella dove, dopo aver affondato i propri pensieri nella bottiglia e nella musica si ritorna a casa, portandosi addosso quella tristezza nella quale nascono le canzoni di questo disco.

Già, le canzoni. Undici canzoni che suonano come se Chet Baker si fosse incontrato con l’anima del fantasma di Hank Williams nel bar di Rick Blaine, a Casablanca, più uno strumentale – Closing time – che del suddetto bar poteva essere la sigla di chiusura, prima che Rick si trovasse solo davanti ad una bottiglia di whiskey ad ascoltare As time goes by. Ma questa è un’altra storia.

Chi scrive quest’articolo non riuscirebbe a rimanere lucido nel descriverle una per una. Per questo non lo farà. Però una cosa la vuole dire. Per entrare nell’anima di Closing Time e del giovane Tom Waits bisogna entrare nei panni del vecchio Tom Frost, protagonista di Martha, una delle canzoni più belle e struggenti mai scritte. Pensate di essere Tom Frost, che dopo quarant’anni di distanza, alza il telefono e chiama Martha, il suo antico amore di gioventù. Sembra di vederlo, mentre il pianoforte e gli archi disegnano la melodia, camminare infreddolito come un James Dean invecchiato nel boulevard dei sogni spezzati e procedere verso la cabina del telefono, da cui chiamerà Martha. Quella Martha che né il tempo né le cose della vita gli hanno fatto dimenticare. “Avevamo impacchettato le tristezze e le tenevamo conservate per un giorno di pioggia”. E il giorno di pioggia, in giunge l’ora di riguardare indietro, dopo tanta attesa pare arrivato.

E se l’anima di Closing Time sta in Martha (ma, a pensarci, anche nell’avventore del bar di I hope I don’t fall in love with you, che seduto al bancone vede davanti a lui la donna dei suoi sogni ma non riesce a cogliere l’attimo per abbordarla), il sunto, la sintesi, sta nell’indolente Grapefruit moon, in cui il giovane Tom, ubriaco più di malinconia che di alcol, si lascia andare ad una vera e propria confessione nella notte ad una luna che sembra un pompelmo nel cielo (e le stelle che sembrano dei limoni, aggiungerebbe Jannacci).

E, sì, di fronte a tanta grazia anche le ingenuità di questo disco, i testi talvolta acerbi, le incertezze nella voce passano in secondo piano e quasi diventano impercettibile.  Non sembra neppure vero che siano passati quarant’anni. Quarant’anni.

E Tom Waits, già, anche lui è un po’ invecchiato, ha disseminato qua e là capolavori, ha frequentato fantasmi del sabato sera, falchi della notte, pesci-spada-trobone, cani della pioggia, variazioni di muli, tristi cartoline di San Valentino, macchine di ossa, e roba simile. Ha giocato con blues e rumori assortiti. Eppure, ogni tanto viene da pensare a quel ragazzo agli esordi, ubriaco di fronte alla luna e che ancora stava scoprendo il gusto triste e bello della vita. 

 

(Gabriele Gatto)