Che sarebbe stata una serata particolare lo abbiamo capito già nel pomeriggio. Attorno alle 17.30, con l’Euganeo ancora in via di riempimento, ecco arrivare Bruce Springsteen in tenuta pre concerto, giacchetta di pelle e occhiali da sole. Saluta sorridente, imbraccia l’acustica e via con una insolita versione di “The promised land”. Il tempo di realizzare che cosa sta succedendo ed ecco che parte anche “Growin’ up”. Poi un semplice “See you later” e via di nuovo nel backstage, così come era apparso.
Improvvisate di questo genere non sono nuove nella carriera del rocker del New Jersey e in questo ultimo tour sembrano diventate più frequenti. Lo aveva fatto anche a Napoli, pochi giorni fa e sono regali che i fan più affezionati, giunti ore prima sul luogo del concerto, non dimenticano mai tanto facilmente. Tre ore dopo, poco prima delle 21, si inizia nuovamente. Bruce ricompare sul palco da solo, chitarra acustica e armonica e attacca una “Ghost of Tom Joad” tirata allo spasimo, una esecuzione tesa e commovente come mai mi era capitato di ascoltare. Non esagero se dico che valeva la pena esserci solo per questo unico brano.
Poi arriva la band e si parte tutti insieme: “Long walk home” è il pezzo scelto per aprire, così come talvolta è accaduto in questa leg europea. Un brano bellissimo, una perla del repertorio recente del Boss, che dice, dopo decenni di concerti in giro per il mondo, quanto sia bello avere un luogo a cui tornare. L’atmosfera è già calda a sufficienza, lo stadio è pieno e canta all’unisono il ritornello: avanti così e si può solo andare in crescendo. E infatti arriva una “My love will not let you down” che è una autentica fucilata, seguita da una “Two hearts se possibile ancora più potente”. Non credo di sbagliare se dico che un inizio così stellare non lo vedevo da tempo.
Ma, dicevo, da qui in avanti si può solo migliorare: che Bruce sia in forma e incredibilmente su di giri lo si vede quando si avvicina alle prime file per raccogliere i cartelli con le richieste. Stasera vuole iniziare subito a seguire gli umori del pubblico. E la prima scelta è da capogiro: quella “Boom boom” che era presenza fissa nel tour di “Tunnel of love” e che praticamente non si sentiva da allora. Una botta di energia rock che fa saltare e ballare tutti, anche quelli che non la conoscono.
Nuovo giro, nuova richiesta: ecco “Something in the night”, uno di quei brani che, quando c’è, ti cambia il concerto da cima a fondo. Esecuzione intensissima, con il piano di Roy Bittan in grande spolvero. E sulla successiva “The ties that bind” (anche questa pescata dalle prime file) ci sentiamo davvero come quegli ospiti privilegiati a cui si servono solo i vini migliori. Si ritorna per così dire alla normalità con un trittico tratto dall’ultimo disco: “We take care of our own”, “Wreckin’ Ball” e “Death to my hometown”. La differenza col materiale storico è evidente ma dal vivo funzionano bene e sono quelle in cui il nuovo assetto della band, con fiati e coristi, risulta maggiormente valorizzato.
Poi, dopo una sempre divertente “Spirit in the night”, accade quello che tutti speravano ma che, per scaramanzia, nessuno osava dire. Bruce cambia rapidamente chitarra, si avvicina al microfono e in perfetto italiano annuncia: “Questa sera, solo per voi, suoneremo tutte le canzoni di “Born to run”. Eccolo qui. Ci siamo. Anche l’Italia ha avuto la sua esecuzione di un album storico. Che dire a questo punto? Nulla. Per poco meno di un’ora si sono susseguiti, secondo l’ordine rigoroso della tracklist originale, gli otto brani di uno dei dischi che ha cambiato per sempre la storia del rock.
Alcune sono delle habitué negli show di Springsteen (vedi l’iniziale “Thunder road” o la title track”), altre molto più dure da sentire (“Meeting across the river”, che col suo intrecciarsi di piano, tromba e voce narrante, mi ha fatto venire i brividi lungo la schiena) ma ascoltarle tutte d’un fiato ci ha resi di nuovo consapevoli che questo è un disco che cambia la vita (come recitava un cartello di un fan, raccolto e letto dallo stesso Bruce prima di iniziare). “Ha cambiato anche la mia, di vita!” ha risposto ridendo. Vero, e non solo nel conto in banca.
Al termine di una “Jungleland” bella come non mai (impressionante il silenzio dello stadio durante l’ultima strofa e la partecipazione commossa durante il celebre solo di sax, che ora è affidato a Jack Clemons, nipote dello scomparso Clarence), non ci sarebbe davvero più nulla da dire. Fosse finito qui il concerto, nessuno si sarebbe lamentato.
E invece la E Street Band è sul palco solo da due ore ed è ancora troppo presto per andarsene. Il resto però, è ordinaria amministrazione. Di qualità eccelsa, ma pur sempre ordinaria. “Shackled and drawn” è l’ultimo episodio di “Wreckin’ Ball” proposto questa sera. Poi l’immancabile “Waitin’ on a sunny day”, dedicata a un nutrito gruppo di croati che poco prima aveva innalzato uno striscione enorme provocando le ire di gran parte del pubblico del prato. Poi l’altrettanto immancabile “The rising” e una “Badlands” che posizionata di nuovo in fondo allo show ha riacquistato, ci sembra, il ruolo che le compete.
I bis (si fa per dire perché dal palco non se ne è andato nessuno) si aprono con una divertente “Pay me my money down”, sulla quale viene invitato dalla prima fila un improbabile personaggio che suonava dei cucchiai su una sorta di cotta di maglia a forma di grattugia. Poi “Born in the USA”, accolta con un boato dal pubblico e con uno sbadiglio dal sottoscritto (un brano che non ho mai amato e che mi spiace sia stato reinserito così tanto nelle scalette). Di ben altra pasta l’ormai celebre versione rock di “Dancing in the dark”, con tanto di fortunata ragazza invitata a ballare durante il solo finale di Jack Clemons. Questa sera Bruce ha strappato più di un sorriso accogliendo l’invito di una ragazza che reggeva un cartello con scritto: “Please, dance with my mother in law”.
“Twist & Shout” non può che essere quella che manda tutti a casa. I continui sorrisi di Bruce e del resto della band sottolineano una volta di più, se ce ne fosse ancora bisogno, che questa è gente che si diverte un mondo a fare quel che fa.
Era la prima volta che Springsteen e la E Street Band suonavano a Padova. Una città che, oltretutto, non ha grande dimestichezza con i grandi eventi musicali. Beh, stasera le è stato fatto proprio un gran regalo: questo è un concerto che si ricorderà a lungo in Italia, ne siamo certi. E adesso appuntamento lunedì a San Siro: che cosa potrà inventarsi per fare di meglio? Noi un po’ lo immaginiamo ma, sempre per scaramanzia, non diciamo nulla…