Succede molto raramente che una band sopravviva alla perdita del suo cantante. Specialmente quando questi è un personaggio carismatico, con una voce indispensabile nel plasmare il sound del gruppo. 

Può succedere che i membri superstiti decidano di andare avanti (dopotutto anche i Queen hanno fatto un disco e un paio di tour senza Freddy Mercury) ma sarà difficile che riescano ad aprire una fase altrettanto fortunata della loro carriera. 



Di conseguenza, bisogna fare un plauso agli Alice in Chains per esserci riusciti. Nel periodo dell’esplosione grunge, la band di Jerry Cantrell è stata quella che ha espresso in maniera forse più compiuta quel malessere esistenziale che era parte di un po’ tutta la cosiddetta “scena di Seattle”. Un capolavoro come “Dirt” è lì a ricordarcelo in modo indelebile: molto più malsano, pesante e distorto di quanto fatto negli stessi anni da Pearl Jam, Soundgarden, Nirvana e compagnia bella. 



Layne Staley è stato parte essenziale di tutto ciò: la sua voce era un marchio di fabbrica indiscusso, tra le più affascinanti che si siano mai incontrate nell’intero mondo del rock. Fu grazie a lui se il gruppo poté prodursi anche nell’esplorazione di crepuscolari atmosfere acustiche come in “Jar of fles” e nel mai troppo celebrato “MTV unplugged.” 

Purtroppo, i demoni della droga ebbero la meglio su di lui e Staley scomparve il 5 aprile 2002 a soli 35 anni, quando la sua band era già ben avviata sulla strada dello scioglimento. 

Mike Inez, Jerry Cantrell e Sean Kinney ci hanno messo quattro anni per capire se continuare o meno. Alla fine hanno recuperato un ottimo cantante nel semisconosciuto William DuVall, hanno fatto qualche data qua e là per vedere se funzionava e nel 2009 hanno tirato fuori un disco, “Black gives way to blue” , che pur senza essere un capolavoro rappresentava indubbiamente un ottimo come back. 



Quattro anni dopo, a dimostrazione che non si è trattato di una semplice rimpatriata in nome dei vecchi tempi, ecco arrivare “The devil put dinosaurs here”, il secondo lavoro di questa nuova incarnazione dell’Alice Incatenata. 

Impatto notevole sin dalla copertina, che mostra un teschio di triceratopo nero in campo rosso. Immagine semplice ma di forte suggestione, ideale compendio per una title track oscura e al limite del doom, probabilmente una delle cose più estreme che il gruppo abbia mai scritto. Il titolo e il testo si riferiscono all’acceso dibattito che infuria in America tra i sostenitori dell’evoluzionismo darwiniano e quelli del creazionismo di matrice biblica. Questi ultimi sono arrivati addirittura a sostenere che il diavolo avrebbe disseminato la terra di ossa di dinosauri, in modo tale da gettare dubbi sulla creazione diretta dell’uomo da parte di Dio. 

Il resto dei brani non è da meno. Si tratta infatti di un lavoro lungo (più di un’ora) e fortemente monolitico. Brani lenti, scuri, autentici macigni che sembrano davvero ribollire di nera pece, proveniente direttamente dalle fornaci dell’Inferno.

Le coordinate stilistiche di “Dirt” si intravedono spesso e volentieri ma solo nell’intenzione generale perché poi in realtà il tutto è molto più pesante e di difficile presa. 

Qua e là affiorano comunque aperture melodiche notevoli, come in “Hollow” (primo singolo, da cui è stato estratto anche un inquietante video a tema fantascientifico) o in “Voices”, dal forte impatto radiofonico e che molto ricorda dei giorni d’oro del grunge. 

Pezzi mediamente lunghi che non disdegnano però una certa fantasia nella struttura, come accade nella inquietante “Phantom limb”, a metà tra sludge e stoner, o in “Lab monkey”, che si produce in un refrain irresistibile proprio quando tutto sembrava finito. A chiudere arriva un’accoppiata di brani (“Hung on a hook” e “Choke”) in cui compaiono suggestioni acustiche, come se la band non si fosse lasciata del tutto alle spalle un lavoro come “Jar of flies”. 

Aggiungiamo l’ottima produzione di Nick Raskulinecz (Marilyn Manson, Deftones, Evanescence. Trivium, Stone Sour, già alla consolle nel precedente disco) che sa conciliare sapientemente l’atmosfera “sporca” dei vari pezzi con una cura e una pulizia del suono comunque invidiabile. 

Se il disco precedente aveva rappresentato soprattutto una prova generale per il grande ritorno, “The devil put dinosaurs here” segna la consacrazione definitiva di questa nuova line up degli Alice in Chains, la prova più potente che il gruppo è più che mai intenzionato ad andare avanti. 

E d’altronde, perché non dovrebbero? DuVall è un ottimo cantante e Jerry Cantrell non ha perso il dono di scrivere pezzi di alto livello. Non è un disco di facile presa, il loro, ma siamo sicuri che con la pazienza giusta e utilizzando alcuni brani come chiave d’accesso, sulla lunga distanza possa essere compreso ed apprezzato nella sua interezza. 

Intanto li aspettiamo dal vivo. Per ora ci sono confermate soltanto le date americane ma si spera che a breve venga annunciato che passeranno anche dalle nostre parti…