Cosa resta di quella stagione così ricca di grande musica? Cosa resta di quella Roma che era tutta rinchiusa in un angolo di Trastevere, in uno scantinato buio e fumoso? Qualcuno potrà dire nulla, qualcun altro potrà ricordare delle canzoni. E se si ricordano le canzoni, non si possono non ricordare gli uomini che le hanno scritte e cantate. Uno di questi, scomparso purtroppo cinque anni fa, era Stefano Rosso. Chi ha vissuto gli anni 70 non lo ha dimenticato: le sue canzoni ironiche, piene di sentimento della sua Roma, quasi un Trilussa dell’epoca moderna, hanno segnato quegli anni. Una storia disonesta, ad esempio, la prima canzone italiana dove si ebbe l’ardire di usare la parola “spinello”. “Ma non l’abbiamo voluta includere in questo disco” spiega Andrea Tarquini, per molti anni a fianco di Stefano Rosso come chitarrista e cantante, oggi autore di uno splendido disco in tributo a lui, “Reds! Canzoni di Stefano Rosso”. “Non l’abbiamo inclusa perché abbiamo voluto privilegiare l’aspetto del cantautore di peso, rispetto a quella sua dimensione più scanzonata e ironica. Ci interessava che fosse riconosciuto che Stefano è stato un cantautore appunto di peso non solo lo stornellatore ironico e frichettone che tutti hanno conosciuto con un brano come questo”. Inciso con alcuni dei massimi esponenti della scena folk e country italiana (il bravissimo chitarrista Beppe Gambetta, molto apprezzato anche in America; Paolo Giovenchi, chitarrista live e di studio di Francesco De Gregori e Luigi Grechi De Gregori, vera icona del Folkstudio e altir ancora), è un lavoro toccante e ricco di emozioni e di ottima musica. Ne abbiamo parlato con Andrea Tarquini.



Ci sono tanti ottimi musicisti in questo disco. E’ stato difficile riunirli tutti per inciderlo?
No, fortunatamente in un modo o nell’altro erano tutte persone che sono legate a Stefano. Così c’era questa sorta di idea comune da tempo di fare qualcosa per ricordarlo: piano piano a uno se n’è aggiunto un altro. Queste partecipazioni sono arrivate in maniera spontanea e legate a un fatto di amicizia e adesione ai contenuti al progetto. Quando qualcuno, entusiasta, ha commentato: finalmente, questi sono i dischi da fare! ho avuto una di quelle piccole conferme che stavo andando nella direzione giusta.

I dischi tributo spesso possono essere delle operazioni pericolose da molti punti di vista. Quello che risalta in questo invece è un grande senso di onestà e di affetto. Che idea avevi in testa quando hai cominciato a pensarlo? E’ quella che pensi di aver ottenuto?
Avevo una idea diversa rispetto al risultato finale. Con Paolo Giovenchi, che mi è stato a fianco in questa operazione, eravamo d’accordo di fare qualcosa di rispettoso ma anche autonomo. Personalmente avevo una idea un po’ meno autonoma di quella che che abbiamo poi deciso di ottenere.

Cosa intendi con autonoma?
Autonomo rispetto a quello che le cover dovrebbero sempre essere, cioè un qualcosa di intellettualmente autonomo, per rispettare l’originale ma per dare una vita propria alle canzoni. Devo dire che grazie a Giovenchi ci siamo riusciti più che se avessi dovuto fare alcune scelte da solo.

Di quale di queste incisioni sei maggiormente soddisfatto?
Amo particolarmente Milano, intanto perché è una storia in parte simile alla mia, quella cioè di un romano che vive a Milano. Ma oltre a questo sono affezionato perché il pezzo che ho deciso in maggiore autonomia nel cercare di fare una cosa come la farebbe Jerry Douglas per intenderci. Sono venuti fuori tutti i mie studi fatti dopo aver smesso di suonare con Stefano, interessandomi al bluegrass e anche il mio infinito amore per Tony Rice è venuto fuori in quel pezzo lì. E’ come se tutto quello che avevo fatto con Stefano l’avessi filtrato e rimesso a nuovo.

Tu come Stefano ami molto la musica tradizionale americana, ma riesci a inserirla in un contesto tipicamente italiano. 
Spesso io e Giovenchi ci diciamo, alla romana: ma che ci vo’? Non voglio apparire presuntuoso ma veramente perché non se ne fanno di più di dischi come questo? In tanti vogliono fare gli americani, ma si fanno solo degli scimmiottamenti provinciali. Non si capisce il perché: non è che costa di più, ci vuole solo un fio di più di cultura e attenzione. 

Che sono le cose che mancano in Italia, non solo nella musica… Personalmente amo invece molto Bologna 77, una canzone che racconta un’epoca storia, ma senza fare nomi o dichiarazioni politiche evidenti. Stefano Rosso aveva questa indubbia capacità. 
Bologna 77 racconta qualcosa che ancora accade pensiamo al G8 di Genova. E’ una storia ante litteram che avviene prima di tutto e racconta un periodo storico preciso. C’è poi la particolarità di essere stata scritta al pianoforte, strumento che lui non usava quasi mai. E’ il suo esempio di scrittura più alta e anche il più impegnativo da cantare. 

Manca però il suo brano più conosciuto, Una storia disonesta: come mai? 
Nel fare questo disco avevamo ovviamente l’obbligo l’obbligo di mettere qualche brano famoso del suo repertorio perché il disco fosse riconoscibile. Ma grosso modo abbiamo privilegiato l’aspetto del cantautore di peso, rispetto alla sua dimensione più scanzonata e ironica. Ci interessava che fosse riconosciuto che lui fosse anche un cantautore appunto di peso, non solo lo stornellatore ironico e frichettone che quasi tutti ricordano. Quello poi è un brano che fanno tutti, era più giusto forse cercare di tirare fuori delle cose un po’ più solide. 

Nel disco c’è anche un brano inedito, C’è un vecchio bar
Ci sono anche altri inediti che Stefano ci ha lasciato, di alcuni addirittura esiste il deposito Siae quindi si presume esista anche uno spartito, ma magari non esiste alcuna registrazione. Nel caso di questo pezzo invece lo abbiamo potuto fare perché io la ricordavo a memoria. Avevo una cassetta andata poi distrutta che la conteneva. Gli altri brani sono reinterpretazioni, in questo caso invece è un recupero storico, fatta esattamente come la faceva lui in quella cassetta, una memoria fotografica. Alla fine ci abbiamo messo una strofa neanche mai depositata che invece in quella versione cantava. 

E lo strumentale che hai scritto tu invece? 
Stefano ha sempre scritto strumentali per chitarra e così anche io, non è una novità, ma una cosa consolidata. L’ho intitolato Ho capito come, perché ogni volta che mi spiegava qualcosa terminava sempre con le parole: hai capito come? Così gli ho dato questo titolo che suona come una risposta. 

Quel Folkstudio di Trastevere è stato davvero qualcosa di unico, da lì sono usciti cantautori di grandissimo valore, da De Gregori a Venditti a Rosso e tanti altri. Credi che sia una esperienza relegata al passato? O ha lasciato qualche tipo di eredità. 
Penso che sarebbe importante ci fosse un folkstudio in ogni città. Il problema è che si tende a essere acritici e poco filologici nel modo in cui ci si avvicina alla musica americana. Invece ciclicamente torna un grande interesse per quella musica, guardiamo ai Mumford and sons, anche se se ne fa un uso strumentale nel senso che un gruppo come quello diventa un pretesto un po’ leggerino per avvicinarsi a quella musica, ma meglio quello che niente. Penso che un luogo del genere sarebbe utile perché la gente specie i giovani possano avvicinarsi a quelle musiche. Noi italiani tendiamo a dividere in generi differenti la musica, in realtà in America è tutto molto più spontaneo. Purtroppo l’esistenza di luoghi del genere è rimandata alla politica che puntualmente arriva tardi o non ci sono i fondi. 

Vuoi dirci un aneddoto, un particolare di Stefano Rosso, visto che tu lo hai frequentato e conosciuto così bene. 
Negli ultimi anni della sua vita lo vedevo di meno, però mi piace ricordare proprio quegli anni perché da un lato testimoniano una certa solitudine che lui viveva, dall’altra sono importanti. Negli ultimi anni faceva dischi con il computer, usando il Midi. Stefano non aveva grandi rapporti con i musicisti, non era uno facile, non comunicava bene le sue intenzioni. Nonostante questo con il Midi che ha suoni orrendi e finti, aveva ridotto la produzione di un disco a una operazione concettuale. Come dire: scrivere spartiti per venti strumenti e poi ci metteva la voce. Il tutto autoprodotto in casa. Ovviamente molto difficile da commercializzare però era una operazione concettuale e scarna all’osso di quello che era il suo percorso e merita rispetto.