Metti un grande chitarrista italiano – tra i più talentuosi della cosiddetta scena “sommersa” della nostra musica (pur con alcune rare collaborazioni nel cosiddetto gotha) – che finalmente decide di mettere su disco il proprio status musicale, la relazione profonda con il proprio patrimonio di riferimento.  Fin qui nulla di strano, insolito o straordinario.  Quanti si sono cimentati in un’operazione di questo tipo qui da noi come a livello internazionale? Di per sé potrebbe essere una delle tante imprese dal sapore autoreferenziale e oleografico.  E allora dove sta in fondo la differenza?



Forse nella presenza di un’altra relazione, quella che precede e rende ragione del tutto.  Non c’è un prima (i nostri riferimenti musicali) senza un altro prima, un’origine (padri, madri, legami affettivi, figli) che dà alla luce, rinnova o sparge nuova linfa su ciò che ci attrae come passione e dedizione personale.  Il quotidiano per il quotidiano, che origina altro quotidiano e a quel primo quotidiano torna come all’epicentro di una storia di fascino e di bellezza.



Missing Baggage” (Bagaglio Smarrito) lavoro acustico del chitarrista milanese Walter Muto è un po’ questo ma è già anche altro.  Anche una certa musica “colta” rimossa dal senso comune può essere recuperata e offerta a chi vi scorge con timore un rischio di pesantezza accademica.  Chi tenta davvero la grande avventura dell’essere padre può arrivare persino a confezionare quel piccolo miracolo di accompagnare affetti e amicizie dentro una musica che non possiede l’impatto immediato e sanguigno del rock’n’roll ma che non ha certo meno da dire quanto ad importanza e incidenza in una grande storia che dall’antichità si è sviluppata fino ai nostri giorni.



Medioevo, Rinascimento e Barocco sviscerati, rivissuti e contaminati di rivoluzioni sonore, pulsioni rock, tormenti moderni, tra soluzioni ardite e ritrattazioni di itinerario.  Ecco allora che i riferimenti primari di Muto si illuminano di quel senso del compito che si diceva.  Non un compiacimento o un’euforia riservati al furore passeggero di un solo istante ma la fecondità di un approccio che di quei giacimenti di note vuole svelare radici, malinconie e visioni.  

Si prenda ad esempio un puro funambolo delle corde come Steve Morse che in alcune uscite tra cui Modoc ha cercato di razionalizzare le sue spinte virtuosistiche in un tratteggio più intimo.  Muto la ridisegna alla sua maniera e si lancia al rintraccio della sua formula originaria pennellando una deliziosa Alfabeto Morse (titolo che evoca in maniera aritmetica il suo ispiratore).

C’è la passione scoperta e vissuta negli anni per il playing turbolento del genio inquieto di Michael Hedges.  Ecco allora i montanti sonori di una Ritual Dance che tra tellurico strumming e tensioni armoniche sugli arpeggi rappresenta nelle parole dello stesso Muto una rivelazione nel proprio modo di approcciare lo strumento, e ancora una Ragamuffin che svela e precisa il lascito di Hedges.  Un massiccio sonoro fatto di saliscendi, deviazioni, stoccate e ripartenze che delineano una vera e propria escursione in note.

E più in là troviamo il tributo alla classe cristallina di Ralph Towner – grande sperimentatore di virtuose confusioni sonore – con quell’itinerario fatto di sudamericanismi e malinconie classicheggianti di Jamaica Stopover di cui il nostro cattura palpiti e intuizioni nell’uso di intervalli, stop e pause per ritagliarsi una personale rivisitazione della sezione improvvisata.

Il barocco magistralmente soffuso dell’Hackett di Horizons e della sorprendente Snowball di Pietro Nobile ci rimandano immediatamente all’assenza dal lavoro in questione di un altro grandissimo come Steve Howe, di cui Muto ha spesso offerto un’ottima esibizione live del capolavoro Mood for a Day.

Ma qui si svela l’ultima sorpresa.  L’anima profonda, elegante e poliedrica del grande chitarrista degli Yes getta la sua lunga ombra su quella che forse è la migliore delle composizioni originali – Frency (dedicata alla figlia) – che incastra, alla maniera del suo mentore, influenze folk-blues (l’incipit) e dosati classicismi d’annata in un bozzetto di pregevole fattura.  E lascia più di qualche traccia anche nelle buone intuizioni sparse tra Chalk Mark On an Empty Box e Giò, dedicate rispettivamente alla memoria del padre e al volto sorridente di una cara amica malata.

Forse allora l’irruzione spensierata di Fiesta, sorta di omaggio alle giocose sarabande del trio DiMeola, McLaughlin e De Lucia, vuole suggerire l’unica neverending story che continua a fare breccia nel fondo del cuore dell’uomo.  Un desiderio antico e non sopito di gioia che si attacca alle viscere contro ogni evidenza contraria del quotidiano, amori perduti, strappati o non corrisposti.  E che alla fine della strada ci permetterà di ritrovare nel senso di tutto e tutti, la genuina esuberanza di quel patrimonio perduto.