Lo spettacolo più importante della settimana è l’omaggio alle celebrazioni verdiane dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con l’esecuzione in forma di concerto de Un ballo in maschera diretto da Antonio Pappano sul podio dell’Orchestra, del Coro e Voci Bianche di Santa Cecilia, sabato 8 giugno (Sala Santa Cecilia ore 18, repliche lunedì 10 ore 20.30 e mercoledì 12 giugno ore 19.30). E’ l’unico titolo d’opera di Giuseppe Verdi che quest’anno Pappano dirige in Italia e per il quale ha voluto un cast di voci verdiane d’eccellenza: nei panni di Amelia sarà impegnata Liudmyla Monastryrk , che lo scorso anno ha riscosso notevole successo nel suo debutto alla Scala in Aida; in quelli di Riccardo, Francesco Meli, di Renato il baritono russo Dmitri Hvorostovsky, Laura Giordano sarà Oscar, Dolora Zajick anche lei voce di riferimento per i ruoli verdiani, sarà impegnata nel personaggio di Ulrica, mentre Samuel e Tom avranno rispettivamente le voci di Riccardo Zanellato e Carlo Cigni e ancora Massimo Simeoli vestirà i panni di Silvano, Carlo Napoletani quelli del Giudice e Maurizio Trementini quelli del Servo. Un’occasione preziosa questa de Un Ballo in Maschera per ascoltare Antonio Pappano nella direzione di un’opera (genere in cui si può seguirlo solo andando a Londra al Covent Garden dove tra l’altro ha appena debuttato – con successo -in una nuova produzione del Don Carlos) e soprattutto l’opera di uno dei suoi compositori d’elezione come Giuseppe Verdi. Inoltre è probabile (ma la notizia non è confermata) che il concerto verrà ripreso a Londra, nel contesto dei Promenade Concerts alla Royal Albert Hall, e verrà registrato e commercializzato da una primaria casa discografica.



Verranno critici da tutto il mondo. Appuntamento da non mancare tanto più che Un Ballo in Maschera è quasi una rarità, visto che a Roma e a Milano manca da dieci anni. Nel 2011 a Macerata è stata presentata un’edizione interessante sul piano drammaturgico ma deludente su quello musicale. Meglio non ricordare quella mostrata pochi mesi dopo al Festival Verdi di Parma. Una buona produzione è stata vista al Massimo Bellini di Catania; ha avuto poca eco poiché il teatro è poco frequentato da critici di testate nazionale.



È necessaria una breve chiosa. Tra il 1828 (“Le Comte Ory” di Giaocchino Rossini) e il 1893 (Manon Lescaut di Giacomo Puccini) per l’opera italiana c’è una lunga notte senza eros (presentissimo, invece, proprio in quei decenni nel teatro lirico tedesco e francese, nonché in alcuni lavori di quello nazionale russo). Una lunga notte interrotta, nel 1859, da Un Ballo in Maschera di Giuseppe Verdi, messo in scena – dopo complicate difficoltà con censure di vari Stati e statarelli di cui allora si componeva la Penisola -, nella Roma del dominio temporale pontificio. Le censure – lo sappiamo – non se la prendevano con il lungo duetto del secondo atto, una vera e propria rivoluzione se non erotica quanto meno carnale (grande novità nell’asessuato, eppur sentimentalissimo, melodramma del romanticismo), ma con il regicidio su cui era imperniato Gustave III ou le Bal Masqué di Eugenio Scribe da cui il buon Antonio Somma aveva tratto il libretto per Verdi. Già Auber, Gabussi e Marcadante avevano messo in musica opere (ormai obliate) derivanti dal dramma di Scribe. A sua volta, quest’ultimo si basa su un fatto storico: l’assassinio di Gustavo III di Svezia da parte del suo Ministro più fidato durante una festa.



Gli storici affermano che la vicenda andò in modo diverso : sia il Re che il Ministro sarebbero stati bisessuali ed avrebbero avuto un rapporto passionale , sfociato in tragedia quando il Ministro si accorse che il Re andava sotto le lenzuola pure con la di lui consorte Tuttavia, ciò non interessava né Scribe né i compositori che si ispirarono al suo dramma. Non solo ma tanto nel lavoro teatrale quanto in quelli musicali i tre protagonisti sono tutti “positivi”: tra il Re e la moglie del Ministro c’è attrazione fatale, non si sfiora rapporto sessuale; il Re perdona tutti ed il Ministro fa ammenda.

Sappiamo come andò: dopo aver trasportato la vicenda dalla Svezia, dove il “fattaccio” avvenne, in una fantomatica Pomerania medioevale , i censori papali (ben oliati dall’editore Ricordi) richiesero che la vicenda venisse portata nella lontana America, a Boston, ed il “morto ammazzato” fosse semplicemente un Conte, Governatore del Massachusetts. Il trasporto carnale nell’“orrido campo” del secondo atto rimase tale e quale; così come la musica che gradualmente lo prepara (dallo strumento leit-motiv per clarinetti dell’introduzione) e che lo segue (al duettino “T’amo, sì t’amo e in lacrime” della scena finale). Chi presiedeva con mano di ferro la censura papalina? Il poeta Giuseppe Gioacchino Belli.

Questa premessa è importante perché registi e scenografi, secondo il vostro “chroniqueuer”, dovrebbero una volta per tutte abbandonare Boston, gli indiani e tutta l’iconografia da Mayflower in cinemascope che, per una stupidità censoria, accompagna Un Ballo in Maschera. Lo si dovrebbe concedere solo all’Arena di Verona a ragione dello smisurato palcoscenico da riempire con Sioux e pionieri e da trasformare una festa da ballo in un Carnevale di Rio. Un Ballo è essenziale: in una “corte” essenzialmente amorale, un uomo probo si innamora, carnalmente, della moglie del suo migliore amico; ne è ricambiato; uomo e donna si spiegano senza mai sfiorarsi; ma per una serie di circostanze ed equivoci, il marito che si crede tradito (senza esserlo) uccide il proprio più caro amico. Il libretto è contorto, ma la musica (anche se non senza qualche asperità) lo trasfigura: un caso che accomuna Un Ballo con delle opere più belle e più sofferte di Verdi (Simon Boccanegra). Tra breve La Scala presenterà un nuovo allestimento di Un Ballo con la regia di Damiano Michelietto che situa la vicenda negli Usa oggi durante la campagna per le primarie presidenziali. Idea meno originale di quel che sembri perché a Piacenza ed a Macerata, Pier Luigi Pizzi ambientò il tutto a Dallas nei giorni dell’assassinio di John F. Kennedy. Probabilmente, una versione di concerto consentirà di cogliere le profonde innovazioni musicali che, nell’Italia del 1859, Verdì apporto al melodramma anche grazie al suo precedente soggiorno a Parigi.