Dove si possono vedere, oggi, nel 2013, decine di migliaia di bandiere italiane, sventolate con il sorriso e senza tronfia retorica? Che già vederne sventolata una oggi è praticamente impossibile. Non alle partite della nazionale di calcio, dove non si conosce l’inno italiano e di bandiere ce ne sono sempre meno. Non ad asfittiche parate del 2 giugno, di cui non interessa più nulla anche ai politici presenti in tribuna con il sorriso d’ordinanza che è quasi un ghigno di orrore. Le abbiamo viste però a San Siro, al concerto di Bruce Springsteen. Una coreografia semplice e toccante, con il pubblico sugli spalti diviso in settori bianco-rosso-verde e i “pazzi” (come li chiama lo stesso Sringsteen) sotto al palco con tante piccole bandierine orgogliosamente alzate. Un modo per accogliere il figliol prodigo, l’artista sul palco che si sa che è per metà di origine italiana e che sicuramente non sarebbe quello che è se non avesse abbondanti dosi di sangue italiano in vena. Ma questo si sapeva. Quello che non si sapeva è che l’unico posto dove è bello dirsi italiani senza vergognarsi è ormai un concerto rock. Springsteen lo ha capito fermandosi a guardare stupito e commosso insieme all’amico Little Steven quel mare di bandiere che lo accoglieva all’ingresso su palco. La coreografia riportava la scritta “our love is real”, il nostro amore è reale, e lui come secondo pezzo ha fatto una travolgente My Love will not let you down, il mio amore non ti/vi lascerà, come risposta.



Come diceva uno che è da decenni grande amico di Springsteen, il cantautore Elliott Murphy, “il rock’n’roll è l’unica cosa onesta che ci è rimasta”: lo diceva a metà anni 70, figuriamoci oggi cosa direbbe. Se politicanti abbruttiti senza più ideali e che hanno buttato nel gabinetto il bene comune, se banchieri e finanzieri corrotti e comici/ideologi da teatro del Bagaglino ci hanno rubato sogni e speranze forzandoci a credere che la vita è male, la vita è cattiva e ci tocca soffrire e sputare sangue e che neanche il nostro vicino di casa è persona perbene, è ovvio che ci sia rimasto solo un concerto rock per ritrovare quella fiducia e quella voglia di farcela nonostante tutto. Ci hanno rubato la vecchiaia, a noi di mezza età, e hanno rubato il futuro ai nostri figli. Come diceva un altro grande di questa musica, Bob Seger, “il rock’n’roll non mente mai”. Qualcuno che era a San Siro tra il pubblico ha detto che andare a un concerto di Springsteen in questo stadio è come andare a San Pietro per il Papa. Se è vero, con buona pace dei fan di tutto il mondo, che il posto deputato per vedere Bruce Springsteen è San Siro – e lo ha dimostrato ancora una volta – , perché qui accade davvero di tutto,  probabilmente è anche vero che San Pietro e San Siro sono gli unici posti al mondo dove ci viene dato ancora qualcosa in cui credere, e una speranza.



A San Pietro ci vai a sentire il Papa francescano, a San Siro il “prigioniero del rock’n’roll” come lui stesso si è definito durante il concerto. In tutti e due i casi non sbagli la direzione: torni a casa consapevole che “non è un peccato essere felici di essere vivi”. Qualcuno può scegliere un posto o l’altro, oppure andare in tutti e due. Per la sua quinta volta a San Siro, Bruce Springsteen ci ha dato qualcosa in questo senso. Non è poco, di questi tempi. Ma ci ha detto anche molto altro.

Non è più quella di una volta, quella su cui Springsteen ha costruito i suoi “glory days” e non potrebbe essere altrimenti vista la mancanza di due pietre miliari, Clarence Clemons e Danny Federici, e la presenza di un Little Steven che ormai non suona più e fa finta di cantare (nonostante Bruce lo sgridi più di una volta chiamandolo per nome, facendogli capire di impegnarsi): è lì solo per fare le facce buffe, da attore dei Soprano quale oggi è. Dei vecchi della E Street Band, va reso onore invece all’incredibile Max Weinberg, obbligato e incitato da Springsteen a un lavoro extra, straordinario stantuffo che nonostante i ben noti problemi fisici si è prodotto in una performance da paura. Ma finalmente Springsteen è riuscito a trovare quel suono che ha cercato negli ultimi anni, tra dischi mal riusciti e qualche tour troppo tentennante. Oggi questa è una nuovissima E Street Band, grazie ai fiati e ai coristi, scintillante e rodata come una macchina da corsa: dentro al suo cofano romba un motore black e folk in dosi uguali, con pistoni potentissimi che marciano sulle strade di New Orleans, un roboante gospel di classe purissima, le suggestioni dell’era “Seeger Sessions” ben chiare nella mente di tutti. E poi il rock’n’roll naturalmente, con scampoli di quei giorni di gloria, e tanto soul e R&B come già aveva provato in diverse occasioni, ad esempio nel 1988. 



Tutto adesso si è amalgamato perfettamente e questi concerti del 2013 potrebbero essere ricordati come alcuni dei suoi migliori di sempre. A San Siro queste dimensioni soniche presenti comunque in tutti i brani sono venute fuori meravigliosamente in pezzi quali American Land (era una richiesta di uno spettatore; appena Springsteen ha visto quel cartello si è infiammato e se lo è fatto passare con insistenza; sembrava non chiedesse altro che suonare quel pezzo), epica celebrazione dello spirito americano più vero, quello fatto del sangue e delle lacrime di milioni di immigrati di ogni parte del mondo, italiani compresi che lui ha celebrato gridando forte: “Italians!”. E’ venuto fuori durante una sontuosa Shackled And Drawn, che sembrava di essere alla messa del reverendo Springsteen, una celebrazione della negritudine d’America ma anche della sua anima profondamente cristiana, a tempo di gospel cannoneggiante e impetuoso da lasciare senza fiato.

 

Il fantasma di Tom Joad

C’è stata una forte vena politica nel concerto di San Siro, che forse è sfuggita ai più. E’ apparso chiaro sin dal primo brano, Land of Hopes and Dreams, un brano che indica la strada di una terra promessa costruita sul sacrifico della moltitudine, ma con la speranza evangelica che la citazione di People Get Ready di Curtis Mayfield nel finale ha evocato. La consapevolezza del nostro vivere in giorni bui e terrorizzanti, quelli della crisi economica che Springsteen sa essere vissuta soprattutto in paesi come il nostro, ha accentuato nel corso della sera il suo messaggio, fatto di una composta ma evidente rabbia per le ingiustizie del mondo. Due i brani che hanno reso esplicito ciò: una Atlantic City full band scura come la pece dove Springsteen sputava rabbia da ogni sillaba che pronunciava (“Now, I been lookin for a job, but it’s hard to find down here it’s just winners and losers and don’t get caught on the wrong side of that line well, Im tired of comin out on the losin end”) e una The River, ascoltata milioni di volte, ma mai come ieri sera carica di tenerezza per tutti gli sconfitti del mondo, con una interpretazione vocale da paura: “un sogno che non diventa realtà è una maledizione”. Come non pensare alla lista terribile dei suicidi per mancanza di lavoro che leggiamo tutti i giorni, sentendo queste parole? Lo ha fatto ancora in un brano che non era da aspettarsi tale, ma è lo stato. Quando nel finale di My Hometown” ha cambiato i versi cantando “is YOUR hometowm” il pubblico forse non ha capito e si è limitato a rispondere in coro quelle parole. Passando dalla “mia” alla “vostra” città (Springsteen lo ha anche detto, gridando “Milano!”) l’invito era a prendere consapevolezza del posto dove uno vive, non a subirlo, a riprendersi la sua città e la sua vita per cambiare entrambi in meglio. Lo ha fatto infine tirando fuori una rarissima This Land is Your Land di Woody Guthrie, cantata in perfetto stile dylaniano e qui davvero c’è poco da aggiungere in quanto a messaggio politico. Non è la terra dei banchieri ladri o dei politici cialtroni questa terra: è la vostra terra invece. Non lasciate che ve la rubino ancora.

 

Born in the Usa

Qualche sera prima a Padova aveva eseguito l’intero Born to Run, il suo disco più amato e conosciuto, una serata per intenditori. A San Siro ha eseguito l’intero “Born in the Usa”, il disco a cavallo del quale venne per la prima volta in Italia e in questo stadio nel 1985. Certo, dal punto di vista artistico la differenza tra i due è ovvia. Ma è stato emozionante per chi come il sottoscritto quel 21 giugno 1985 era a San Siro ritrovare e ripercorrere quell’estate in cui tanti sogni divennero realtà, quell’estate dei nostri vent’anni, quando dalle finestre delle case di Milano sentivi quel disco suonare a palla e riviverla proprio insieme a lui. Dal vivo poi il disco perde tutta quel suono plastificato e da discoteca che lo caratterizzava. Basti la strabordante Cover Me, in cui Nils Lofgren si è lasciato andare a un assolo stellare, lunghissimo e devastante, con tanto di chitarra suonata coi denti alla Jimi Hendrix. No Surrender e Bobby Jean ci hanno ridato di schianto tutta la bellezza tenera e romantica di quell’estate di quasi trent’anni fa ricordandoci che sì è proprio vero: abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola. Certo nella vita non abbiamo fatto carriera come altri, ma il nostro cuore è rimasto puro e sanguinante di quella ferita come non in molti possono vantare di avere, grazie a quel disco di tre minuti e a canzoni come No Surrender. E a quell’estate del 1985.

 

La più grande bar band del mondo

Springsteen a San Siro ha confermato ancora quello spirito che una volta gli fece dire: “Se non avessi avuto successo avrei passato il resto della mia vita a suonare ne bar”. Solo lui sa rendere uno stadio come San Siro il bar dietro casa dove una bar band fa divertire chi suona e chi balla senza sembrare dei cretini o degli sfigati, gli uni e gli altri. Sin da inizio serata quando ha proposto Long Tall Sally di Little Richard (il cartello che aveva raccolto dal pubblico recava scritto Good Golly Miss Molly, sempre di Richard, ma lui aveva voglia di suonare quella). E poi nel finale travolgente a luci accese di Twist and Shout e di Shout, brano quest’ultimo che ci ha fatto divertire come fossimo a quel party di Animal House con John Belushi in prima fila, arrivando a sdraiarsi tutti sul palcoscenico e i 60mila sul prato e sugli spalti. Per non dire del caos sul palco durante Dancing in the Dark. Questa volta sono saliti: una ragazza per ballare con il pianista Roy Bittan; una seconda per ballare con il bassista Gary Tallent; un ragazzo (!) per ballare con una delle coriste, e una nonna e sua nipote per ballare con lui. La nonna, in forma peraltro smagliante, avrà avuto l’età di Bruce, è scoppiata in lacrime sonanti attaccandosi al collo di lui come se avesse ritrovato il marito perso anni e anni fa. O forse il padre. Non fosse abbastanza, la vincitrice della lotteria, la prima ragazza entrata nello stadio, ha potuto suonare per qualche minuto la chitarra con lui.

 

Finale

Alla fine ha salutato uno per uno tutti i suoi musicisti mentre uscivano dal palco, segno di grande rispetto professionale, tornando fradicio di sudore dopo tre ore e mezza senza sosta con una chitarra acustica da solo. Ha fatto Thunder Road, che significa moltissimo per tutti e per lui, la canzone che ha costruito idealmente l’epoepea del rock più romantico e realista allo stesso tempo che sia mai esistito. Lo schermo dietro di lui mostrava dozzine di volti in lacrime tra il pubblico. Cosa ci dicevano quelle lacrime? Nient’altro che la consapevolezza che “non è un peccato essere felici di essere vivi”. Ce lo siamo portata a casa, questa consapevolezza, per essere più forti ad affrontare il male del mondo. Da quella prima volta nel 1985, questa è stata la quinta esibizione di Springsteen a San Siro: cinque volte San Siro, come diceva il bel video trasmesso mentre gli spettatori se ne uscivano dallo stadio. Un video che ha ricordato anche Franco (Mamone), promoter di quella prima volta e oggi scomparso, e Claudio (Trotta) che per queste notti a San Siro ha rischiato anche il carcere. Grazie anche a loro dunque. Come diceva un cartello nelle prime file, adesso Milano ha un santo patrono aggiuntivo: “Saint AmBruce”.