Il ragazzino prese uno dei papillon del padre morto, lo slegò e vi nascose all’interno un piccolo foglio di carta sui cui aveva scritto qualcosa. Il giorno seguente, con una piccola cerimonia intima, scavò una buca e vi mise dentro il papillon nel giardino sotto la neve. “Da allora Leonard (Cohen) ha descritto quel foglio come il suo primo scritto. Ha anche detto di non ricordare cosa vi fosse scritto e di aver ‘scavato nel giardino per anni alla sua ricerca. Chissà, forse io non faccio altro che cercare quell’appunto'”. Comincia probabilmente così la carriera del più grande poeta canadese del novecento e uno dei più grandi al mondo, Leonard Cohen, come lo racconta la bellissima biografia scritta dalla giornalista Sylvie Simmons e da poco pubblicata anche in Italia grazie all’interessamento della casa editrice Caissa Italia (tradotta ottimamente da Yuri Garrett), “I’m your man, vita di Leonard Cohen” – 478 pagine, 25 euro. La Simmons è una delle più quotate scrittrici rock e ha potuto godere della collaborazione dello stesso Cohen.
Quella ricerca inconscia di cosa fosse scritto in quel bigliettino, quando a 9 anni di età Cohen perde il padre, è quello che in fondo tutti facciamo, poeti o no: sono quegli anni, quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, che ci segnano per il resto della vita, nel bene e nel male. La vita è solo portare a compimento, se ci si riesce naturalmente, quello che la vita stessa ti mette davanti. Per Cohen questo è successo con la parola, prima scritta poi cantata, ricercando quel bigliettino scritto per il padre morto.
Un libro straordinario, questo, che colma in Italia una lacuna grave, e che scandaglia a fondo la vita e l’arte di questo poeta imprestato alla musica, soffermandosi con dovizia di particolari e dettagli dapprima sul Canada precedente la Seconda guerra mondiale (Cohen nasce nel 1934), il mondo dell’alta borghesia ebraica da cui Cohen proveniva, per poi affrontare le tappe di un cammino artistico senza paragoni. Un Canada, quello di quei tempi, unico nel suo multiculturalismo culturale (anche se poi anni dopo questo multiculturalismo si sarebbe infranto nelle rivendicazioni francofone, ad esempio, anche in modo violento) affascinante, in cui francesi cattolici, inglesi protestanti ed ebrei si mescolavano con naturalezza. Leonard, ad esempio, viene cresciuto da una tata cattolica che a volte lo portava in chiesa con lei: “Io amo Gesù” dice Cohen, “l’ho sempre amato anche da bambino. Me lo sono tenuto per me, non è che mi alzassi in piedi nella sinagoga per dire: amo Gesù”. L’elemento spirituale è quello fondamentale per questo artista, che non rinnegherà mai le sue radici ebraiche (significativo l’episodio di quando, già poeta affermato, si alza in piedi nella sinagoga di Montreal per richiamare gli ebrei al recupero delle fondamenta e dei valori autenticamente spirituali della loro fede, svenduta in cambio della ricerca del successo economico e di prestigio sociale) anche quando si chiuderà in un monastero buddista per ben cinque anni. Un elemento spirituale che si mischia, affonda e riemerge in quello carnale e sessuale, che fa a pugni con una depressione insistente, tanto che verrà soprannominato Captain Mandrax dal nome dell’anti depressivo preso abbondantemente per decenni.
Sono questi episodi che forgiano nel futuro poeta e musicista una personalità unica, tesa unicamente alla ricerca e all’affermazione del Mistero attraverso una via, come dice lui stesso, fatta di santità.
Nel libro scopriremo tanti particolari inediti, ad esempio che il giovane studente Leonard è uno studente modello, eccellente al liceo e all’università, benvoluto da tutti tanto da diventare presidente di associazioni studentesche, rappresentante universitario e quant’altro. Non c’è nulla che faccia presagire il suo futuro d’artista almeno fino al giorno in cui si imbatte nelle poesie di Federico Garcia Lorca: “Quando diceva una cosa in una certa maniera sembrava abbracciare il cosmo” racconta lo stesso Cohen al proposito. “Non era solo il mio di cuore a essere coinvolto, ma quello di tutti”. Nulla sarà più lo stesso per Cohen che, come spiega, voleva rispondere a quelle poesie: “Ogni poesia che ti tocca è come una chiamata a cui bisogna rispondere e io volevo rispondere con la mia propria storia”. E’ così che nasce un poeta, e il poeta Leonard Cohen era nato. Grazie a incontri fortunati, quali professori universitari che si davano da fare a loro volta con la poesia, in un Canada ancora a digiuno di grandi e significative esperienze letterarie, nascerà un circolo di scrittori e poeti di cui il più grande diventerà Cohen, celebrato nel giro di dieci anni come il massimo poeta canadese vivente. Nello stesso tempo, gli anni 50, si innamora della musica country & western e insieme al libretto su cui prendere appunti per le sue poesie, lo si vedrà girare per Montreal con una chitarra sempre in mano. Ancora non lo sa, ma la musica sta per diventare il suo altro elemento vitale.
Il debutto come poeta in una rivista letteraria è del 1954, a vent’anni di età. Seguiranno acclamati libri di poesie, un romanzo abortito, poi il primo romanzo di successo. Nella poesia di Cohen la nostalgia per la Bellezza e quel cuore comune a tutta l’umanità intravisto nella poesia di Lorca, attraverso la figura femminile e la ricerca di una santità impossibile da trovare su questa terra, l’irrequietudine come elemento fondante del sé. Qualcun altro ha aggiunto brillantemente che l’opera di Cohen è quel punto dove Dio, il sesso e la letteratura si incontrano, cioè l’umanità stessa dell’uomo. Da questa irrequietudine i viaggi: prima un anno a New York, dove frequenta l’ambiente effervescente del Greenwich Village nel 1960, conosce i poeti beat come Allen Ginsberg che però non lo sanno accettare come uno di loro e i primi folksinger in attesa del ciclone Bob Dylan, poi Londra dove lavorerà al suo primo grande romanzo. Quindi la Grecia, la tappa fondamentale e decisiva, nell’isola di Idra dove ancora prima che si coniasse la parola hippie già vi viveva una comunità di espatriati, drogati, bohemienne, abitata da pazzi e santi dediti all’amore libero e alla poesia. Nell’isola di Idra Cohen vivrà per alcuni anni una stagione esaltante, con il suo primo grande amore, una donna svedese che aveva già un figlio, Marianne, immortalata nella canzone omonima, una delle sue grandi muse ispiratrici, lavorando alacremente al capolavoro “Beautiful Losers”. Il mare, il sole, la solitudine, le anfetamine, l’Lsd, l’hashish, l’alcol, i lunghi digiuni per catturare visioni spirituali: Cohen sperimenta sul suo corpo e sulla carta un linguaggio disperante alla ricerca del verbo da imprimere sulla carta. Una sfida taòmente affaticante da farlo tornare ancora alla neve e al freddo di Montreal perché nessun posto è abbastanza, solo per conoscere una nuova musa, quella decisiva: Suzanne. Sarà lei a ispirare la sua prima canzone omonima che, incisa da Judy Collins, sarà un tale successo da fargli capire che si può guadagnare di più con la musica che con la letteratura.
E così sarà: mentre gli anni sessanta volgono al termine, Leonard Cohen, che da tutta la rivoluzione rock di quel decennio si è tenuto ben lontano, vi entra in punta di piedi, già oltrepassata la trentina, un vecchio per la logica del tempo. Il suo primo disco esce nel 1968: è l’inizio di un’altra vita, dove lo scopo è lo stesso, la ricerca della Bellezza impossibile.
La storia discografica, quella di Leonard Cohen, è nota a molti, ma Sylvie Simmons la racconta altrettanto bene. Vale la pena citare una osservazione che ricapitola il senso stesso dell’opera di Cohen: “Secondo una credenza popolare per poter creare un artista o uno scrittore hanno bisogno di un elemento di disordine, miseria e improvvisazione. Come lo stesso Leonard ha affermato, ‘è vero che Dio stesso, come narra la Genesi, si avvale del caos e della desolazione per creare l’ordine dell’universo, cosicché il caos e la desolazione potrebbero essere visti come il Dna di ogni creatività”.
Cohen continuerà a incidere dischi memorabili, ricchi di capolavori assoluti anche dopo gli anni 60 e 70, combattendo e vincendo in parte la sua depressione atavica. Nei primi anni 90 ad esempio tornerà sulle scene con “The Future”, quello che contiene la bellissima Anthem, canzone che immortala la sua visioen cosmica: “Dimentica la tua offerta perfetta, c’è una crepa in ogni cosa è così che entra la luce”. E’ il monito definitivo di Cohen che si dona al mondo: “La luce” spiega Leonard “è la capacità di riconciliare la tua esperienza, il tuo dolore, con ogni giorno che albeggia. E’ quella comprensione che va al di là della significatività o del significato, che ti consente di vivere la vita e accettare i disastri e i dolori e le gioie che sono il nostro comune destino. Ma ciò può accadere solo riconoscendo che c’è una crepa in ogni cosa. Credo che tutte le altre visioni siano destinate a un pessimismo irreparabile”. Negli anni 80, dopo aver letto in anteprima i testi di alcune sue canzoni nuove quali Hallelujah e If It Be Your Will, Bob Dylan gli aveva detto che le sue canzoni stavano diventando “come preghiere”. Tre anni fa, ricevendo una prestigiosa onorificenza, quasi tracciando il compimento definitivo del suo cammino umano e artistico, Cohen si espresse così: “Un santo è qualcuno che ha raggiunto una remota possibilità umana. Un santo non dissolve il caos. Se potesse farlo, il mondo sarebbe già cambiato tanto tempo fa. Non credo neanche che il santo possa dissolvere il caos per se stesso. Ben lontano dal volare con gli angeli, egli traccia con la fedeltà della puntina di un sismografo lo stato del sanguinante orizzonte. La sua casa è pericolosa e definita, ma lui si sente a casa sua nel mondo. Sa amare le varie forme dell’umanità, le belle e confuse forme del cuore. E’ una cosa bella avere in mezzo a noi tali uomini, tali mostri dell’amore che sanno come bilanciare la realtà”. Questo cammino, questa ricerca della santità, continua tutt’oggi: ieri sera Cohen ad esempio era a Lucca a quasi ottant’anni di età. Lo si può ammirare ancora sui palcoscenici di tutto il mondo, continua a incidere dischi che pesano come moniti profetici sul mondo, se solo il mondo lo volesse ascoltare. Una figura, quella di Cohen che ha onorato la Bellezza della vita, e questo libro la dice tutta. Ancora alla ricerca di quel bigliettino che aveva scritto per il padre il giorno della sua morte, e nascosto nel giardino di casa. Un giorno, quel bigliettino svelerà il suo segreto.