Una sera di tanti anni fa, una sera di adolescenti stupidi e forse un po’ ubriachi, io e il mio amico il Conte ci trovammo a discutere di calcio e musica. Ora, io sono uno a cui piace la polemica e calcio e musica sono i due argomenti nei quali la polemica mi piace fomentarla più che da qualsiasi altra parte. In breve il motivo del contendere era decidere se, come passione, fosse meglio il calcio o la musica; il Conte diceva che l’adrenalina che ti dà un goal della tua squadra nessun concerto può regalartelo, io ribattevo, pur essendo sostanzialmente d’accordo, che da un concerto non esci mai scornato e deluso come da una sconfitta in casa all’ultimo minuto e che le emozioni che ti regalano due, tre ore con la tua musica preferita sono comunque impagabili.



Resta il fatto che calcio e musica sono cibo per occhi, mente, cuore e spesso purtroppo anche pancia.

Quindi ben vengano i libri come questo Rock’n’Goal (Vololibero Edizioni, 188 pagine, 15 euro) di Antonio Bacciocchi e Alberto Galletti, che con fare didascalico ci raccontano il legame solido, solidissimo tra questi due centri di attrazione così forti.



Un legame che ha radici lontane, soprattutto tra il rock e il calcio, più che ogni altro tipo di musica; rock e varie derivazioni che nascono dalla strada, dai quartieri popolari dove forse mettere in musica il proprio disagio aiutava e aiuta tutt’ora a sollevarsi da esso, a partire verso posti migliori, ad andare via da città di perdenti, per vincere.

Vincere, affermarsi, raggiungere dei traguardi; ecco quindi che anche la musica, anche l’arte, contiene in sé agonismo, competizione, desiderio di rivalsa verso avversari più o meno visibili e definiti.

E il calcio anch’esso arriva dalle stesse strade, da quartieri poveri dove una palla di stracci e una striscia di asfalto erano sufficienti a sentirsi dei campioni, dove vincere la partitella con gli amici, di quelle che duravano 4 ore, altro che 90 minuti più recupero, ti portava per qualche minuto a Wembley, a San Siro, al Maracanà.



L’esasperazione del business ha poi creato un effetto curioso che avvicina ancora i due mondi, pur in maniera distorta: i calciatori oggi sono delle vere star, sono le Donna Summer, le Beyoncè, i Michael jJackson del momento; anni fa io ingenuo ragazzino di provincia avevo fatto le foto con Gaetano Scirea (capitano della Juventus eh, non di qualche dopolavoro aziendale) in un campetto di tennis provinciale e anonimo, ora i calciatori anche di medio livello frequentano (potendoselo permettere) posti super esclusivi e irraggiungibili, creando barriere che in qualche modo le partitelle sull’asfalto, magari giocate dagli stessi super campioni di adesso, volevano abbattere.

Altra similitudine, che il libro sottolinea nei frequenti cambi di ruolo tra calciatori e cantanti, sta nel piacere adrenalinico ed egocentrico di essere su un piedistallo, che sia un campo verde od un palco.

Chi cattura gli occhi di 90mila persone prima di battere un rigore è probabilmente attratto dalla curiosità di capire se si prova la stessa sensazione avvicinandosi ad un microfono. E ovviamente viceversa.

Inoltre è molto curioso e interessante leggere le passioni musicali dei nostri beniamini domenicali; mi ricordo che io, springsteeniano feroce, il nome di Bruce l’ho notato non su una rivista specializzata, né su programmi musicali della tv tipo Mister Fantasy, bensì su un giornale sportivo, che aveva fatto una specie di indagine sui calciatori, chiedendo loro chi fosse il cantante preferito.

Era il 1985, l’anno di “Born in the USA”, l’anno del primo concerto a San Siro, e tutti i calciatori lo indicavano come il migliore, come potevo io, che mangiavo pane e calcio, non innamorarmene?

Anche io ho degli aneddoti sulla questione, prima di tutto mi piace ricordare i gemelli Filippini, che per anni hanno avuto una sorta di tifo trasversale a prescindere dalla squadra dove giocavano, per via della loro passione, appunto, per Springsteen. Ricordo l’entusiasmo con cui venne accolta l’esultanza di Emanuele dopo un goal nel Parma, quando, a suo dire, mimò l’assolo di Born to Run! Certo, pensai, che è un bene che sto ragazzo sia fan di Springsteen eh, che è uno che scrive canzoni dalla durata abbastanza standard; pensate fosse stato fan dei Grateful Dead: tempo che esultava con l’assolo di Dark Star gli altri avrebbero giocato andata, ritorno ed eventuali spareggi!

Una volta capitai a Milano alla vendita straordinaria di un disco sempre di Springsteen, credo fosse “Magic” e in fila con noi si materializzò Massimo Ambrosini. Me lo ricordo appassionato sincero, che senza divismi di sorta parlò di musica e calcio (guarda tu) con noi in fila; ad un certo punto qualcuno gli chiese se al concerto di novembre di Bruce ad Assago sarebbe andato e lui, saputa la data fece una smorfia: era una sera di Champions e il Milan giocava in Portogallo! Tranquilli, ci sarò, disse. Beh credeteci o no, ma stranamente “Ambro” la partita precedente venne ammonito e saltò per squalifica la partita incriminata; alcuni raccontano che nel parterre di Assago non sentisse nemmeno la radiocronaca.

E poi Eddie Vedder, che nel bel mezzo di uno straordinario concerto, sempre a Milano, dedicò Given to fly alla nazionale italiana appena laureatasi campione del mondo (partì in automatico il pezzo dei White Stripes, la canzone più conosciuta da chi non ne sa il titolo).

E Materazzi e Del Piero sul palco degli Stones pochi giorni dopo la finale di Berlino? Insomma, la musica piace e molto anche ai calciatori e questo spesso crea intrecci imprevedibili.

Confesso infine che la mia forte, fortissima simpatia per il Genoa ha una motivazione ben precisa: Fabrizio de André.

Altri, alcuni davvero curiosi, sono gli aneddoti presenti sul libro, dello stesso tenore.

Le canzoni, la musica stessa, fanno parte della competizione calcistica in modo basilare, come ci ricordano tutti i titoli mitici citati da Bacciocchi, pezzi ormai legati a doppio filo con la tal squadra o il tal stadio.

La You’ll never walk alone cantata all’unisono dal Celtic Park di Glasgow ha fatto alzare diversi centimetri di pelle d’oca anche a chi non tifava Celtic quella sera di Champions e non a caso nella coreografia era presente una versione riveduta e corretta della copertina di un mitico disco dei Clash.

Il legame, il senso di appartenenza, la fedeltà (spesso esacerbata) per i colori della tua squadra chiamano naturalmente una colonna sonora, un inno, una melodia da cantare tutti assieme per sentirsi davvero uniti e più forti di qualunque avversario.

La musica svolge quindi questo ruolo di collante, di rafforzativo di un legame, che trova quindi linfa ed enfasi nuova nelle sette note.

Antonio Bacciocchi e Alberto Galletti riescono a rappresentare tutto questo, portando innumerevoli esempi e soprattutto elencando una serie impressionante di generi e stili che nel tempo hanno coinvolto i frequentatori abituali delle gradinate; non sempre in maniera diretta, ad esempio i mods britannici, ma comunque presentando il legame tra calcio e musica come qualcosa di molto concreto e solido.

Anni fa mi innamorai perdutamente di Nick Hornby solo leggendo la quarta di copertina di due suoi libri. Nella prima si chiedeva se si potesse amare una donna e contemporaneamente andare pazzo per 11 uomini (“Febbre a 90”).

Nella seconda la domanda era invece se fosse possibile amare qualcuno con una collezione di dischi incompatibile con la propria (“Alta fedeltà”).

Io, che un paio di mesi fa ho festeggiato lo scudetto della mia squadra e poi sono partito per vedere Southside Johnny a Milano, la risposta non l’ho ancora trovata, ma non credo sia così importante farlo.

 

(Il Cala)