Ad essere sinceri, un po’ di timore era nell’aria. Un’ora prima del concerto, Piazza Napoleone si presentava semi deserta e a farsi sentire era solo il caldo. Che ti vuoi aspettare, d’altra parte non fa un bel disco da una ventina d’anni, le riviste specializzate lo ignorano completamente da secoli, il concerto è stato poco pubblicizzato e poi… be’, il giorno prima Leonard Cohen, il giorno dopo Nick Cave, chi vuoi che venga… E allora, inevitabilmente e sotto il solleone, torna in mente l’articolo di un noto mensile musicale che dopo un paio di album così così, alla fine dei novanta aveva dichiarato in un trafiletto “non recensiremo più un disco di Bryan Adams”. Per non parlare di un giornalista che nel suo blog, non più di un mesetto fa, ancora si auto celebrava per aver stroncato, all’epoca, un disco come Cuts Like a Knife. Questione di gusti, per carità, anche se a volte il buonsenso dovrebbe essere declinato in terza persona e non solo in prima.
I timori, però, scompaiono improvvisamente al calar del sole, come se la notte avesse portato consiglio. Alle 21.30, puntuale come un orologio svizzero, Bryan Adams sale sul palco con la sua band e fa deflagrare la sua miscela di rock’n’pop che tanto piaceva a cavallo tra gli ottanta e i novanta grazie a canzoni solide e ben strutturate, supportate da una voce roca e potente che non ha perso un millesimo della sua forza originaria, anzi. Sulle note di House Arrest, gran pezzo che da solo vale il prezzo del biglietto, l’adrenalina contamina gli spettatori e con sorpresa ci si accorge, grazie al maxi schermo che inquadra la platea, che la piazza è piena.
Il rocker canadese è in forma smagliante e non si ferma un attimo, regalando due ore di bellezza che condensano un perfetto greatest hits capace di far impallidire gran parte dei nuovi fenomeni che ci vengono quotidianamente e forzatamente propinati da radio, pubblicità e talent show. La band è fantastica e ben rodata, a partire dal chitarrista Keith Scott, al seguito di Bryan da trent’anni, così come il batterista Mickey Curry, che ha condiviso per intero il suo percorso: un suono pulito, senza sbavature, perfetto. Il pubblico sembra gradire, canta, partecipa in modo attento ed educato, Adams se ne accorge e interagisce, invitando più volte a telefonare alla mamma per dirle che il concerto è trasmesso via radio (vero…), tra spaghettate di mezzanotte e una sveglia per i vicini a suon di pezzi da classifica. Sì, perché in quel decennio le charts di mezzo mondo parlavano la sua lingua e un album su tutti (Reckless, 1984) divenne una fonte inesauribile di successi. In Italia il grande pubblico se ne accorse in quel periodo, finché un paio di anni dopo una sua canzone fu utilizzata nello spot di un famoso whisky scozzese (quello dal colore chiaro, gusto pulito) e uno dei presenti al concerto, allora ragazzino, volò dal suo pusher vinilico a chiedere chi fosse quel tizio. La storia, poi, racconta il motivo della sua presenza a Lucca quella sera.
Proprio da Reckless arrivano Somebody (anche questa divenne il jingle di una pubblicità), la grintosa, famosissima e immancabile Summer of ’69 con il pubblico in delirio, una versione da brividi di Heaven (senza whisky ma ancora più magica, perché è proprio questa la canzone incriminata), con un pathos incredibile e il pubblico ammutolito, la devastante Run To You (vedi alla voce “come si scrive un grande brano”) e It’s Only Love, in origine un duetto con Tina Turner sostituita nell’occasione proprio da Keith Scott, con tanto di sguardi ammiccanti e ampia dose di ironia. Altrettanto simpatica è l’esecuzione di When You’re Gone, per la quale a fare le veci di Melanie C (l’ex Spice…) è una ragazza chiamata direttamente dal pubblico, che se la cava egregiamente a livello di presenza scenica, un po’ meno nelle doti canore…
Altri highlights della serata sono Back To You, brano dotato di una melodia splendida, la tiratissimaHearts On Fire (dal riff sempreverde, rock’n’roll allo stato puro), la tersa e irresistibile Thought I’d Died And Gone To Heaven e le puntuali ballate Please Forgive Me, (Everything I Do) I Do It For You – canzone tra le più conosciute che ottenne una nomination all’Oscar nel lontano 1992 dopo la pubblicazione, l’anno prima, di quello che forse è il suo ultimo grande album, Waking Up the Neighbours, oltre dieci milioni di copie vendute – e Have You Ever Really Loved a Woman, dai sapori latineggianti e un retrogusto che nobilita l’etichetta.
Alla fine Bryan rimane solo sul palco, imbraccia la chitarra acustica e ci regala due versioni da urlo diStraight From the Heart (una delle sue migliori ballate) e All For Love, originariamente interpretata a tre voci insieme a Sting e Rod Stewart (ma la penna è tutta sua).
Quando il pubblico lascia la piazza, si notano espressioni incredule. Nessuno, probabilmente, si aspettava un concerto così bello, per di più nell’unica data italiana del tour dopo alcuni anni di assenza. Anche se l’età media non è bassa, i pochi ragazzi presenti – quasi tutti al seguito di genitori diventati adulti con la cassetta di Bryan nell’autoradio estraibile – sembrano soddisfatti, e il motivo è molto semplice: le canzoni del canadese sono ancora freschissime e non hanno minimamente risentito degli acciacchi del tempo. Inutile aggiungere che questa è la forza della vera musica e che se un artista diventa popolare e da classifica non necessariamente deve perdere punti sulla patente del rock. Forse, se quella sera fossero stati presenti i due illuminati di cui sopra, si sarebbero divertiti. Magari senza ammetterlo.
(Foto in apertura articolo di Fiorenzo Sernacchioli)