Alle 21,30 spaccate inizia una Carry On agguerrita e ruggente. Il primo tributo è quindi a Stephen Stills, che appare dimagritissimo e rigenerato, almeno dal punto di vista fisico. Per quanto concerne quello vocale, si sente subito che Stills è il più penalizzato dei tre, voce gravelly, sabbiosa come sempre, ma estensione ridotta e fatica nel prendere e tenere intonate alcune note. Il secondo brano della canonica triade-di-apertura-un-pezzo-a-testa spetta a Nash, e si tratta di Military Madness, tratto da Songs for Beginners, 1971. È poi la volta di Long Time Gone, immortalata per sempre come sigla iniziale del film su Woodstock ed eseguita qui con smalto intatto da David Crosby, una simbiosi perfetta con Nash e risposte chitarristiche all’arma bianca da parte di Stills. 



Una serie di pensieri si affollano subito in mente, ma in particolare due: innanzitutto è vero che quel momento fra il 1968 e il 1973-74 è stato unico e irripetibile, brani scritti allora suonano oggi ancora insuperati. Ma con quale coscienza stanno oggi cantando queste parole scritte 40 (leggi quaranta) anni fa, in un mondo completamente diverso, ma con le stesse domande? 



Mentre rifletto, la voce di Stills arranca sia sul cameo di Nash, Our House, che per la verità, essendo un pezzo apparentemente leggero, ma non facile, mostra qualche problema di intonazione comune a tutti.  

Stills annuncia poi una canzone della sua infanzia – singolare osservazione, quasi da nonno – e lo era davvero la sua infanzia, il tempo dei Buffalo Springfield.  Subito dopo Deja vu riapre il sogno. Piccole modifiche nell’arrangiamento rendono l’inizio più incisivo, anche se questa versione non è facilmente decifrabile da chi non avesse mai sentito la canzone originale. Graffiante assolo di Stills, assolo di Nash precisissimo all’armonica e poi spazio alla band per una serie di altri assoli. Una versione rotolante di Love the one you’re with ci restituisce uno Stills un po’ più centrato e conclude la prima parte, lasciando spazio a 20 minuti di break. 



La seconda parte inizia con una Helplessly Hoping quasi swing e sbarazzina, suonata e cantata in punta di piedi, poi Teach your children, un po’ più lenta, soffusa e ricalcante l’arrangiamento originale.  Guinnevere è qualcosa di celestiale, idealizzazione della figura femminile della sua compagna Christine, morta in un incidente stradale in cui David era alla guida, e stasera, come ormai da anni, dedicata alla moglie Jan. Non c’è dubbio, dopo diversi viaggi all’inferno e ritorno, Crosby è sicuramente il più intenso e vero. Affidata solo alla chitarra acustica e alle due incredibili voci di Crosby e Nash, Guinnevere è una perla rara e a mio parere climax e fulcro della serata. Assoluta e innovativa ancora oggi. La successiva Burning for the Buddha è l’unico pezzo nuovo proposto nel concerto. Classica combat song rotolante alla Nash-degli-ultimi-20-anni, è dedicata ai più di 120 monaci buddisti che si sono dati fuoco negli ultimi tempi per protestare contro la guerra fra Tibet e Cina.

Spazio ancora a Crosby, che invita ad indovinare di che pezzo si tratti. E attacca Triad, inno all’amore libero in una versione elettrica e riffosa. Proseguendo, una doppietta di Nash: Cathedral, preceduta da una monumentale introduzione e Chicago, attualizzata da un “Don’t ask Barack to help you”. Il “Jack” degli anni ’70 si è trasformato nel presidente di turno. Grintosa e possente, Almost Cut My Hair dimostra che Crosby è anche il più amato dal pubblico. Lo spirito fricchettone non si è spento, la nostalgia diventa urlo verso un ideale, che questi artisti incarnano ma cui manca ancora una risposta, domanda irrisolta. In ogni caso dopo l’ultimo acuto prorompente di David, standing ovation, tutti in piedi.  L’atmosfera post-nucleare di Wooden Ships permette a Stills di chiudere in bellezza. Mantenendosi nella sua quinta di estensione anche Stills ce la fa con la voce, gli altri due si sono scaldati e tengono in maniera formidabile. Siamo a due ore esatte dall’inizio. Stills raccoglie le energie residue e piazza un acuto sofferto e vibrante sull’ultimo accordo vocale. “Guess I’ll set a course and go”. Ed infatti vanno, ma il pubblico li richiama a gran voce. I due bis sono For what it’s worth e Suite: Judy Blue Eyes, entrambe eseguite con gli arrangiamenti originali. 

Cosa aggiungere? In una intervista dopo uno dei concerti di questa stagione, Stills diceva: “Abbiamo eseguito tante volte Suite: Judy Blue Eyes solo con la chitarra acustica e le voci, ma quando l’avevamo registrata sul nostro primo disco, nell’arrangiamento c’era molta più roba!” Dobbiamo tenere presente che i tre, pur restando tre mostri sacri, hanno appena passato o sono molto vicini ai 70 anni. E come qualunque nonno guarda le foto di quando era giovane e le commenta, anche loro hanno voluto tornare alle versioni dei brani così come erano. E questo è quello che il loro pubblico vuole. È vivere di rendita? Se è così, lo stanno facendo da moltissimi anni. Ma le canzoni che hanno scritto e che ripropongono sono scolpite nella roccia, monumento perenne di un momento magico e di una domanda possente di felicità, che è ancora presente in loro, come, anzi sicuramente in maniera più drammatica di allora.