Che sarebbe stata una serata epica si era già capito durante il set di apertura di Johnny Marr, ex chitarrista degli Smiths, figura leggendaria del rock inglese degli ultimi trent’anni. In un bel concerto basato essenzialmente sulle canzoni del suo ultimo disco solista, infila infatti un paio di pezzi degli Smiths, tra cui There is a light that never goes out, con tanto di imitazione vocale del suo ex compagno Morissey. Marr la dedica con particolare vigore “a tutti quelli che sono qui stasera e a nessun altro”: è un brano ancora oggi di una bellezza spettacolare, sia per la deliziosa melodia, sia per gli intrecci chitarristi da antologia sia per le liriche. Che invitano a “uscire fuori stanotte”, a farci portare là dove c’è la gente e c’è la musica, senza mai più tornare a casa. Un inno condito del classico humour cinico britannico (“morire al tuo fianco sarebbe per me un privilegio”). Che la serata sarà decisamente epica ne avremo poi la conferma quando Marr si unirà ai National per tre o quattro pezzi tra cui una straboccante e cosmica Squalor Victoria. E’ una serata per cuori spezzati, è una serata per gli ultimi romantici, quelli che quando le luci calano sulla città escono fuori per ritrovarsi nei luoghi della musica, per rinnovare la loro promessa, per sostenersi insieme, per sfuggire almeno qualche ora eisstenze al limite del sostenibile (pubblico giovanissimo, in gran parte universitari che è bello vedersi attorno così rapiti dalle buone vibrazioni) E mai accoppiata fu più perfetta per una serata del genere, Johnny Marr e il gruppo più intensamente romantico d’America.
L’accoppiata con Marr funziona anche perché i National sono la band più “brit” d’America e il connubio fra loro e l’ex Smiths è perfetto e sensato: un ponte fra l’oceano, un ponte fra due epoche storiche unite da una sola coscienza: la musica come catarsi del male di vivere.
L’allampanato Matt Berninger, cantante della band, ben riassume tutto questo con il suo aspetto che è l’antitesi di una rock star: sembra un professore di mezza età di un qualche college americano capitato lì per caso, ma non per questo concedendosi di meno. Canta avvinghiandosi all’asta del microfono, sorseggia in continuazione bicchieri di vino e parla pochissimo al pubblico. Poi, nel finale, si getta giù dal palco per andare incontro al pubblico stesso. Non è il solito gesto tipico di tutti o quasi i concerti rock: qua il cantante non sta cercando l’abbraccio del pubblico, ne sta cercando il sostegno. Berniger ha espresso per quasi due ore tutto il dolore, la depressione anche, la fatica di vivere che le sue canzoni raccontano. Adesso ha bisogno di qualcuno che lo prenda in braccio e lo consoli: quando il pubblico lo prende su facendolo surfare sulle loro teste, sembra quel professore di college di prima che ha rinunciato a tutto per un po’ di calore umano, mica la rock star che si fa adorare.
A un certo punto dirà: questa è una “drinking song, come quasi tutte le nostre canzoni quando non parlano di amore e odio”. Non sono “drinking song”, canzoni per bere e divertirsi, quelle dei National: sono più “songs of love and hate” come le ha definite lui, ma anche per citare il titolo di un disco di Leonard Cohen a cui Matt e i suoi guardano in modo evidente dal punto di vista dell’ispirazione più che per la musica stessa. O come dice il titolo di un loro vecchio disco, “sad songs for dirty lovers”.
Musica che dal vivo dimostra, come tre anni fa in uno straordinario concerto all’Alcatraz, la potenza della loro visione sonica: due chitarre strapazzate senza pietà all’unisono, sezione ritmica precisissima e incalzante, tastiere e due fiati a sottolineare la ricchezza di intuizioni musicali che pescano nel chitarrismo degli U2 (quando gli U2 erano ancora gli U2, ovviamente), nei citati Smiths, nei Joy Division, ma anche in The Band. I pezzi dal punto di vista della struttura musicale si assomigliano un po’ tutti: partenza lenta, sofferente, poi il groove che si innalza sempre di più fino a un potenza cosmica deflagrante che spacca in due, un’orgia spirituale che spalanca a mondi che la realtà quotidiana ci tiene nascosti. Come detto, in Squalor Victoria l’apporto di Johnny Marr è la carta in più (è la primissima volta che National e Marr incrociano le chitarre) e centrato, trascina e guida la band in una catarsi sonica senza paragoni. Vengono in mente anche i crescendo dei Wilco, un’altra band che ha fatto del ponte fra Inghilterra e Stati Uniti il senso della propria visione musicale.
Per il resto, il concerto si divide equamente fra i brani del nuovissimo disco (“Trouble will find me”) e il loro passato pescando un po’ ovunque. Dall’iniziale I should live in salt dell’ultimo cd, a classici del loro disco migliore, “High Violet”, come Bloodbuzz Ohio, Afraid of everyone, Mr. November e Terrible Love. A differenza del concerto della sera precedente a Roma, non dimenticano il loro brano probabilmente più bello, England, romantica visione che conferma quel ponte fra “la cattedrale di Los Angeles” e quella “vita sotto la pioggia” della capitale inglese.
Concludono con una acustica e a-cappella Vanderlyle Crybaby Geeks, cantata con sofferenza e umiltà come se tutto quello che ci restasse da fare fosse semplicemente piangere calde lacrime. Che è una dichiarazione di umanità che di questi tempi di cialtroneria e cinismo quotidiano può solo fare del bene.
(la foto dell’articolo è di Luca Bertoni)