Qualcuno ha detto che il 1973 è stato l’ultimo grande anno del rock, poi basta. Gli anni in cui la musica rock sarebbe morta – the day that music died – sono moltissimi, grazie a Dio però risorge sempre. I Black Crowes come immagine (allampanati hippie dai lunghi capelli che sembrano usciti dalla foto di copertina del live “At Fillmore East” della Allman Brothers Band) e come proposta musicale sono probabilmente ibernati in quel 1973 reso celebre anche da uno dei più bei film sulla musica rock, “Almost famous/Quasi famosi”. Sono una anomalia spazio-musicale. D’altro canto il cantante Chris Robinson è stato anche sposato con l’attrice Kathe Hudson, la protagonista di quel film là. Se qualcuno si chiede perché il 1973, è semplice: nel giro di un paio di anni sarebbero arrivati Bruce Springsteen e Patti Smith e poi anche il punk a spazzare via un certo modo di intendere il rock, imponendone un altro (che alla base è sempre lo stesso, comunque).
I Black Crowes suonano quella e soltanto quella musica, quella che fa riferimento a gruppi come ABB appunto, e poi Faces, Stones, Traffic, Led Zeppelin, Humble Pie, tutte band che hanno dato il massimo dal punto di vista creativo entro e non oltre il 1973. I Corvi lo fanno con disinvoltura, freschezza, energia anche post grunge, visto che in fondo esordirono solo un anno prima di “Nevermind” dei Nirvana e qualcosa di quella carica hard rock ce l’hanno nel sangue. Lo fanno con il cuore puro, soprattutto: niente megalomanie assortite, solo l’amore indefesso per la “Musica”. I sorrisi sul palco, le dita della mano che salutano con la “V” di pace & amore lo testimoniano.
All’Alcatraz di Milano per due ore hanno incantato con un unico trip sonico quasi senza sosta che ha spalancato le porte dello spazio-tempo, ma con loro è sempre così. Una cavalcata travolgente proponendo circa metà del loro disco più bello e famoso, il secondo, “The Southern Harmony and Musical Companion”, cover (Traffic, Stones, Deep Purple) e altri loro classici. Tutto condito da jam chitarristiche al fulmicotone, e naturalmente l’incredibile vocalità di Chris Robinson.
Per questo tour della loro ennesima reunion c’era un nuovo chitarrista solista, l’ottimo Jackie Green. I BC, si sa, cambiano chitarristi come fossero fazzoletti, e da quando vennero in Italia la prima volta li abbiamo sempre visti con uno differente (la line-up con Marc Ford ovviamente rimane la migliore). Green ha preso il posto di Luther Dickinson, sorta di fotocopia sonica di Duane Allman, portando ai BC sonorità più rock e meno blues. Per il resto, Rich Robinson è l’usuale stantuffo da un milione di riff diversi, capace di prendersi i suoi momento comunque anche lui soprattutto alla slide. Chris, dal canto suo, è sempre di più una reincarnazione di uno sciamano che mette insieme James Brown e Mick Jagger per le movenze ma anche per quella capacità unica di evocare i sapori del profondo sud degli States, tra R&B, country soul e gospel.
Un concerto dunque d’assalto, cominciato in modo indelebile con l’incalzante Jealous Again dal primo disco della band del lontano 1990, e seguita come una mitragliata con ben tre pezzi da “The Southern Harmony”, loro secondo disco del 1992, e cioè Hotel Hillness, Black Moon Creeping, Bad Luck Blue Eyes Goodbye. Il pubblico ovviamente impazzisce e saremmo già soddisfatti così, ma poi arriva una bellissima ripresa dal repertorio dei Traffic, Medicated Goo che ci lancia dimensioni non abitate dagli umani. Se la pur bella Soul Singing dal discusso “Lion” del 2001 priva delle coriste appare un po’ zoppicante, la successiva jam di Wiser Time, da “Amorica”, spalanca porte di universi sonici di bellezza sconfinata. Parte il tastierista Adam MacDougall con un lungo assolo vagamente jazz, dai sapori ipnotici e intriganti.
Mano a mano si inseriscono tutti in un crescendo cacofonico dove però ogni nota è al suo posto: sbagliare un ingresso durante questi momenti vorrebbe dire far crollare un castello che si regge su una fraternità musicale di livello impareggiabile. Jackie Green e Rich Robinson incrociano le chitarre esplodendo assoli che lanciano in un trip multicolore apparentemente senza sosta. Dieci minuti circa di “good vibrations”.
Il finale accende il concerto delle luci della festa grande: prima il medley Hard to Handle (Otis Redding)/Hush (primo singolo di successo dei Deep Purple anche se non scritta da loro), poi una versione spezzacuori di No Expectations, degli Stones del loro periodo migliore (ante-1973 ovviamente). Forse è un caso, ma stasera è il 3 luglio, giorno in cui si ricorda la morte di Brian Jones. Il modo come Chris Robinson la canta con partecipazione straboccante, i dolenti assolo di slide del fratello, tutto concorre a far pensare che a lui sia dedicata. Tutti a casa dopo la lunga cavalcata elettrica conclusiva, Movin’ down the Line. I Corvi sono ancora il miglior spettacolo rock in circolazione. D’altro canto, loro stessi una volta si erano definiti The Most Rock ‘n‘ Roll Rock ‘n‘ Roll Band in the World. Avevano ragione. Lunga vita ai Corvi Neri.