Sussurri e grida.  Forse una differenza più sottile, più probabilmente un discrimine decisivo quello che corre tra il Glen Hansard raffinato estensore e interprete in studio di laceranti torch song perlopiù pensose e intime – quasi sussurrate per l’appunto – e l’incontenibile showman che fa tracimare e debordare quel grido che rimane come soffocato e trattenuto tra le fredde mura del grigio lavoro della sala di registrazione. Un po’ come la routine quotidiana che taglia le gambe, tarpa le ali e limita la creatività potenzialmente infinita del proprio essere unico e irripetibile.



Nella dimensione live quel grido sembra diventare permanente e inesauribile termine finale di un sussurro che c’è ma che non rimane confinato nella prigione di desideri e dolori privi del necessario punto di fuga.  Il grido qui è proprio tutto e ogni gesto, parola e impeto strumentale sembra confluire in quel grido.  



Questo aspetto sembra trasparire in maniera sempre più definita nell’a tu per tu con l’audience di Glen Hansard così come si è rivelato nella tappa del tour estivo di Rhythm and Repose che ha portato il folk-rock singer irlandese in riva alla città di Milano nell’ambito della rassegna estiva Lost Weekend.  Tra le vecchie aree dismesse ex Breda del Carroponte di Sesto San Giovanni tocca alla sublime e irresistibile dolcezza di una Lisa Hannigan predisporre i cuori a quella battaglia dove nulla del nucleo umano di ciascuno viene risparmiato.

Un impeto inarrestabile che esplode sin dall’apertura affidata al sensazionale crescendo rock-gospel di una Her Mercy che appare come una vera e propria dichiarazione d’intenti.  Qui stasera ragazzi si condivide un grido che si fraziona nei tanti cuori presenti e si ricompone in un ricambio continuo di sguardi e tensioni.  Si guarda al fondo di un dolore, ci si spinge persino alle soglie della disperazione ma proprio lì si invoca l’impossibile resurrezione.  La performance è come un anticipo e un riassunto di quello che verrà.  Hansard avvolge e trafigge, sezione ritmica e propulsori melodici (terzetto d’archi e fiati) srotolano un mantello sonoro nervoso e turbolento.



L’efficacissimo e ricorrente trittico dal nuovo album assomma la liquida melanconia di Maybe Not Tonight, una movimentata Love Don’t Leave Me Waiting (chiusa da citazioni dei classici soul blues Respect e Baby Please Don’t Go) e su tutte una straordinaria Talking with the Wolves.

Con quest’ultima il cantautore di Dublino ci conduce in un mondo che è insieme cinematografia e letteratura, sulle orme dei kolossal di genere e del Cormac McCarthy di The Crossing.  Lo struggimento della ricerca di una disperata, forse inverosimile corrispondenza, la disillusione e la sommossa dagli abissi del cuore alla ricerca di un segno che ti si rivolta contro.  La band sempre esemplare – guidata da fiati e archi – sottolinea il tutto con crescendo fragorosi che tracciano scenari da melodramma d’epoca fino all’epilogo in diminuendo che per converso non fa che esaltare il senso doloroso della vicenda.

In tutto questo la tensione non cala di una virgola con Hansard che rincara la dose con la nuda e veemente passionalità del centerpiece Bird of Sorrow e con una sezione acustica dove con il solo accompagnamento di chitarra e voce mette in fila l’accorata Leave e il consueto omaggio al Van Morrison di una Astral Weeks che mette in atto un vero e proprio sfondamento acustico.

La sorpresa e il vertice della serata è rappresentato da una Fitzcarraldo prezioso reperto della lunga e inestricabile esperienza di The Frames.  In questa lunga notte di cuori viaggianti, il brano in questione riassume in otto minuti l’agognato epilogo di un lungo itinerario senza fiato.  Musica, strabordo vocale di Hansard e crescendo esponenziali tra irish e world, evocano la visione finale di occhi che si imbevono di un pianto gioioso e liberatorio (“well now it’s time for to sound your voice”).   

Rappresentazione dell’arrivo al sospirato traguardo della casa da tutti desiderata? Dalla forza intrinseca dell’atto conclusivo prima dei bis si direbbe di sì.  This Gift arriva inesorabile e si dipana gloriosa come un’apoteosi, sottolineata dalla vitalità incontenibile di una sezione fiati che esplode come una sinfonia alla maniera delle grandi orchestre popolari che una volta si ascoltavano persino in tv. 

Ma è la lunga sequenza dei bis che toglie ogni dubbio al riguardo.  Accompagnato ora dalla classe cristallina della Hannigan, scorrono il magnifico tradizionale Gold, una soave ninna nanna a due voci e l’immancabile oasi catartica di Falling Slowly.

A questo punto Hansard, lasciati quattro minuti introduttivi al primo violinista ci invita tutti a brindare con lui, i suoi musicisti e collaboratori in una interminabile Auld Triangle dove gioia, dolore e scherzo convivono sotto un unico grande suggello finale in un gioco continuo di rimandi senza soluzione di continuità.  

Se si potesse assistere in anteprima ad una proiezione a cielo aperto della comunione dei santi questa sarebbe forse la più bella approssimazione, potenza del puro canto e della grande musica.  E conPassing Through si da inizio a quella festa destinata a non finire, dove show e after-show sono un tutt’uno, sul palco e giù dal palco, dentro e al di fuori di sguardi e cuori in attesa di quel giorno dove nulla potrà più essere nascosto o rimosso.