Enzo Iacchetti arriva al Meeting di Rimini con il suo spettacolo dedicato a Giorgio Gaber, uno spettacolo rodato già da tante esibizioni, e ci va con grande emozione. “Ma perché tutti mi chiedono perché vado al Meeting?” dice stupito Iacchetti nel corso di questa intervista con ilsussidiario.net: “Avranno mica qualche malattia strana quelli del Meeting? Quando mi hanno invitato non ci ho pensato neanche due secondi e ho detto subito di sì. Vado a fare il mio spettacolo e spero di conquistare il pubblico, ma spero anche di fare qualche incontro personale. Mi piacerebbe chiacchierare con qualcuno di Comunione e liberazione, capire di più. Ci sono cose che già conosco, alcune mi piacciono, altre meno, ma io ho sempre criticato, semmai, dall’interno, proprio come Gaber, non stando fuori pensando di detenere chissà quale verità”. Iacchetti ha dunque colto lo spirito autentico del Meeting: un incontro fra persone che magari la pensano diversamente per capirsi, confrontarsi, conoscersi. E il suo spettacolo, come dice lui, “Chiedo scusa al Signor Gaber”, sicuramente sarà l’occasione per un incontro: “Presento il Gaber degli anni ‘60, quello del suo primo periodo, quello più gioioso, colorato, divertente, perché penso che i giovani abbiano bisogno di conoscere questo Gaber”.



Iacchetti, il suo spettacolo su Gaber è in giro da tempo. A Rimini magari introdurrà qualche cosa di inedito, di diverso?
Lo spettacolo ha delle forme ben delineate, non prevedo cambiamenti, non ci sono spazi. Ci sono monologhi e canzoni, i monologhi sono miei le canzoni sono le sue. Io e i miei musicisti ci siamo divertiti a stravolgerle, sono le canzoni degli anni ‘60, il periodo giocoso e felice prima che abbandonasse la tv e diventasse un filosofo del teatro. Può darsi che la situazione possa indicare qualche momento di simpatica improvvisazione, ma è uno spettacolo che vuole ricordare un Gaber dei primi tempi quando era già un artista all’avanguardia nonostante non si dedicasse a un impegno nel sociale come si è visto negli anni successivi.



Del periodo teatro canzone quello successivo agli anni ‘70, c’è un disco in particolare che le piace di più?
Direi tutti, ma in particolare l’ultimo disco, “La mia generazione ha perso”. In quel disco ha anticipato il periodo che viviamo oggi, questo disfacimento culturale, lui usava chiamarlo medioevo. Il suo ultimo disco è quasi un testamento, una rassegnazione anche se credo che se fosse vivo adesso non sarebbe per niente rassegnato.

Ha ancora significato oggi, a dieci anni dal sua morte, Gaber per la nostra società?
Mi piacerebbe fosse vivo per chiederglielo. Certo oggi manca il suo commento, ma vedo nel mio spettacolo che i giovani apprezzano molto il Gaber degli anni ‘60 mischiato all’attualità. I monologhi che farò sono allegri, sdrammatizzanti, le canzoni le conosciamo bene: Barbera e champagne, Il Riccardo, Torpedo blu. Sono tutte canzoni che fanno sorridere anche se anticipano i tempi. Pensiamo a il Riccardo che gioca al biliardo: oggi invece nei bari ci sono le macchinette mangiasoldi. Anche se non era impegnato come lo fu in seguito ho pensato fosse logico dare un omaggio comunque a quel Gaber.



In tanti oggi fanno spettacoli di omaggio a Gaber: forse in troppi?

Sono tanti è vero, ma tutti scelgono il Gaber dell’ultimo periodo. Io non è che voglio disimpegnarmi ma ho voluto omaggiare il periodo primo proprio perché non lo trovo per niente banale. E’ già molto rivoluzionario che cantasse al sabato sera in tv canzoni come Un’idea oppure Lo shampoo, queste cose surreali che venivano da una scuola precisa. 

Quale? 
Ricordiamoci che Gaber viene dal rock’n’roll, dal cabaret, era amico di Jannacci e Celentano, gente importantissima nella Milano degli anni ‘50. Era addirittura il chitarrista di Celentano e Jannacci il pianista. Un gruppo talmente straordinario che ognuno a modo suo è diventato un grande artista. 

Si trova più a suo agio a cantare Gaber o a recitare i monologhi? 
E’ una domanda strana ma in realtà ci sta. Io non faccio un omaggio a Gaber e basta, ricordo Gaber con le sue canzoni ma con le mie parole. E’ una cosa che mi differisce dagli altri omaggi fatti finora con tutto il rispetto per chi rende omaggio a lui. La mia “missione” quando ho pensato a questo spettacolo è stata quella di avvicinare i giovani al primo Gaber, a quello più divertente, quello più scanzonato, quello colorato, quello che parlava della Milano semplice umile, quello che sperava in un progresso. Questa cosa mi differisce dagli altri che di Gaber fanno addirittura gli spettacoli senza modificare una virgola. Io ho avuto il permesso della famiglia, perché ero amico di Giorgio, addirittura di manipolare le sue canzoni. 

In che modo? 
In Barbera e champagne c’è un pezzo di Zucchero, Per colpa di chi, e poi c’è un pezzo di Jovanotti. In Porta Romana ci sono nove contaminazioni. E’ difficile cantare le canzoni cambiate in questo modo però poi mi rilasso quando faccio quelle due chiacchiere fra una canzone e l’altra. Vedo che il pubblico approva, sorride. Più che altro canto in questo spettacolo. 

Lei ha citato la Milano di una volta e artisti come Jannacci, purtroppo recentemente scomparso. Che Milano è quella di oggi per Enzo Iacchetti? 
La Milano di oggi non è una cosa brutta però si è modificata tanto, è diventata la città più mitteleuropea d’Italia nel senso che a Milano i milanesi non ci sono mentre a Roma ci sono ancora i romani. Qua ci sono gli indiani, i cinesi, i giapponesi, gli arabi: è diventata una città in cui si cerca di convivere ognuno forse troppo nel suo giardino e per questo manca quel senso di aggregazione che c’era invece negli anni ‘60, quando i milanesi andavano a fare i tornei di bocce o andavano in “piazza del Dom”. Queste tradizioni sono venute a cadere per il grande afflusso da noi di popoli di tutto il mondo. Il che è una cosa bella perché vuol dire che è una città nonostante tutto generosa e che accoglie tutti a bracce aperte. Però ne subisce anche le conseguenze sia per episodi di malavita che per l’integrazione. Mia nipote va in un asilo dove ci sono sei bambini di ogni parte del mondo, è molto bello però tante volte si scontrano perché ognuno di noi è cresciuto in una cultura che non è quella dell’altro. Ma ho fiducia che le cose cambieranno, d’altro canto il messaggio più bello è quello della fratellanza, no? 

E’ la sua prima volta al Meeting: che idea ne ha? 

Non so perché tutti mi chiedono perché vado al Meeting. Ma perché ci sono dei lebbrosi, ci sono delle malattie? Io apprezzo molto l’uomo e credo che ognuno abbia delle cose buone. La difficoltà è di capire le cose buone di ognuno. Io cerco di prenderle da tutti e siccome credo che il Meeting possa essere per me una esperienza interessante ci vado con piacere. Quando mi hanno invitato non ci ho pensato neanche due secondi, e ho detto subito di sì. C’è stato anche Gaber, e credo sia stato accolto benissimo. Mi auguro che quello del Meeting sia uno dei miei migliori spettacoli di sempre e allora perché questa tensione di tutti che mi chiedono perché ci vado? Avrò un confronto, a una parte del pubblico magari piaccio già, oppure lo conquisterò ma non credo che mi tireranno dei sassi. Vado con quattro musicisti bravissimi e una scenografia molto bella, qual è il problema? 

Lo dicevo perché qualcuno in passato si è rifiutato di andarci… 
Il mio messaggio mi sembra che vada bene per tutti coloro che usano l’intelligenza e hanno voglia di confrontarsi. Mi piacerebbe anche chiacchierare in privato con qualcuno, ci sono cose su Cl che mi piacciono e altre no, ma come Gaber io ho sempre criticato le cose dall’interno non come il detentore della verità. Voglio sapere la loro verità come voglio sapere quella di uno di sinistra e di uno di destra. Le ideologie non mi interessano, spero in un uomo globale che possa pensare cose giuste, senza infuriarsi perché sei di sinistra o sei di destra, o sei di Cl. Io non la penso più così. Sono pronto davvero a fare uno spettacolo con grande emozione come ogni volta che canto Gaber e appena il pubblico mi fa capire che dal punto di vista artistico è soddisfatto mi emoziono di più e do tutto quello che ho fino all’infarto.

(Paolo Vites) 

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