Il Don Carlo di Giuseppe Verdi rappresenta quasi una prima mondiale per due ragioni: a) essere stato coprodotto non da altri teatri lirici (come spesso avviene per un lavoro la cui messa in scena è così costosa) ma da alcune importanti reti televisive; b) è la prima volta che l’edizione in cinque atti viene presentata non secondo la versione approntata per Modena nel 1886, ma in una stesura molto prossima a quella composta per la “prima pagina” del 1867. Del primo punto ci occuperemo in altro articolo. Soffermiamoci sul secondo ricordando che la scorsa primavera in Italia è stata messa in scena (e recensita su Ilsussidiario.net) sia la versione del Don Carlo in quattro atti approntata per la Scala nel 1884 (è la versione che si presenta normalmente in Italia) sia la versione in cinque anni detta “di Modena”. La prima è stata proposta dal Teatro Regio di Torino, la seconda (in versione da concerto) dal Maggio Musicale Fiorentino e (in una versione scenica deludente) a Modena e Reggio Emilia.
Don Carlo, l’opera forse più squisitamente politica di Giuseppe Verdi, mostra il decadimento degli Asburgo nel passaggio da Carlo V (sempre presente in spirito ma mai sul palcoscenico – non si sa se è morto o se si è invece celato al mondo, nel Monastero di San Giusto) a Filippo II in contrasto con il Grande Inquisitore e con il proprio figlio – l’infante “Don Carlo” il cui destino resta misterioso nell’affascinante ambiguo finale dell’opera (si rifugia a San Giusto, ma non è chiaro se finirà nelle mani del Grande Inquisitore o, riuscirà, a porsi alla testa della rivolta nelle Fiandre).
Don Carlo è la grande ’”incompiuta” di Giuseppe Verdi. Lo è più d’altre sue opere più volte rielaborate nel corso degli anni quali “Macbeth”, “Simon Boccanegra”, “La forza del destino” e “Stiffelio”. E’ la sola che non ha avuto una versione definitiva se non si considera tale quella “di Modena” del 1886 che riprendeva in versione ritmica italiana, ma scorciandola, l’edizione originale parigina del 1867; l’”ur-Don Carlo” parigino richiede circa 7 ore di spettacolo, include mediocri ballabili; i tentativi di riesumarla, in lingua originale e con il lungo (25 minuti) ballo del terzo atto, trenta anni fa a Boston (grazie a quella diavoloccia di Sarah Caldllwell), un quarto di secolo fa a La Fenice ed una quindicina di anni fa a Torino (nonché in disco per la bacchetta di Claudio Abbado) sono stati deludenti e costosissimi: nella “prima” parigina del 1867, ad esempio, vennero predisposti ben 535 costumi di cui 240 nuovi di zecca e 118 modificati dallo stock esistente nei magazzini del teatro. Per ragioni di durata e di costo, in Italia è invalso l’uso di rappresentare la versione “di Milano” o “della Scala” del 1884 da cui si perde, musicalmente e drammaticamente, l’atto di Fontainebleau, premessa essenziale della vicenda e, soprattutto, momento onirico di ricerca dell’utopia.
Nell’atto, il giovane Don Carlo s’innamora, nella foresta imbiancata dalla neve, della giovanissima Elisabetta di Valois, ma non sa che essa è destinata in sposa a suo padre, Filippo II, proprio per rispondere ad un disegno geo-politico di integrazione economica, strategia e culturale (si badi ai richiami, nel secondo quadro del secondo atto, alle “canzoni saracene” ed all’eleganza e modernità nella lontana Parigi). Attenzione, nella versione del 1886 in cinque atti (utilizzata da Luchino Visconti e Carlo Maria Giulini in un allestimento per l’Opera di Roma della metà degli Anni Settanta, ripreso a Firenze nel 2004), l’accento è sull’amore tra la principessa e l ‘infante’ di Spagna non sul contesto politico (i contadini che anelano la pace, Elisabetta che risponde loro accettando le nozze con il Re invece con il giovane erede al trono).
Sotto il profilo musicale, le tre versioni del “Don Carlo” sono tavolozze di un percorso tra il melodramma (quale codificato, proprio da Verdi, a metà Ottocento) e il dramma in musica compiuto quale è “Aida”, pur realizzata 14 anni prima del “Don Carlo” modenese e solo un lustro dopo quello parigino. Delle tre versioni, la parigina (che vidi nella prima messa in scena integrale, quella diretta e concertata dalla Caldwell nel 1973 ed ascoltai più volte nella registrazione di Abbado, peraltro di poco successo commerciale) è la più incompiuta: ha pagine bellissime (espunte dalle altre) quali il coro dei contadini e quello dei cacciatori ma anche lunghe sezioni in cui Verdi ha forse composto bendato (il ballabile “La Perégrine).
La versione “di Milano” è la più compatta ma l’afflato geopolitico assume un ruolo secondario rispetto al complicato intreccio di amori, di politica di palazzo e di religione di stato. La versione “di Modena” è la più matura; ripristina l’atto di Fontainebleau; taglia i ballabili; ritocca qua e là il resto dell’immensa partitura con il senno che Verdi aveva nel 1886. E’ la versione di prammatica al Metropolitan, all’Opéra e al Covent Garden. L’ho vista al Metropolitan, nonché a Roma alla fine degli Anni Ottanta e a Firenze una decina di anni fa.
Veniamo all’operazione effettuata da Antonio Pappano (direzione musicale) e Peter Stein (regia) con il supporto di Ferdinand Wögerbauer (scene), Annamaria Heinrich (costumi), nonché di uno splendido cast (Matti Salminen, Jonas Kaufman, Anja Harterios, Thomas Hampsons, Ekaterina Semenchuck, Eric Halfvarson, Robert Lloyd – per non citare che i protagonisti), dei Wiener Philarmoniker e del Wiener Staatsopernchor. In primo luogo, viene eseguita l’edizione del 1867, con l’accento, dunque, sul quadro politico entro cui viene inserita la complessa vicenda amorosa, ma con due differenze: viene eliminato il lungo ballabile scorciando di 25 minuti il terzo atto (lo spettacolo dura comunque circa cinque ore e mezzo con due intervalli di 25 minuti ciascuno). Non viene, però, utilizzato il testo francese (come, ad esempio, nelle esecuzioni di Claudio Abbado e di Sarah Caldllwell per una ragione di efficienza: quasi nessun cantante (Abbado registrò in studio) conosce le parti in francese ed avrebbe comportato un costo enorme impararle e provarle.
Questa lunga premessa – essenziale per comprendere cosa si è visto a Salisburgo e cosà si vedrà in numerosi Paesi (in Italia lo spettacolo verrà replicato almeno quattro volte l’anno per il prossimo lustro) – lascia poco spazio per trattare di quanto visto ed ascoltato nella Grosse Festspielehaus il 25 agosto (dalle 18 alla mezzanotte circa). Limitiamoci ai punti salienti che possono essere di aiuto a chi vedrà l’opera in televisione. In primo luogo, regia e direzione musicale hanno lavorato di stretto concerto. Non è il solito Don Carlo grandioso e celebrativo ma un dramma politico ed umano molo serrato in una Spagna dove prevale, nei costumi, il nero. Le scene sono scarne ma efficacissime, i movimenti da un quadro e l’altro spediti. Soprattutto, la concertazione di Pappano da all’orchestra una varietà di colori maggiori di quelle proposte , di recente, a Torino da Noseda e a Firenze da Mehta.
Ottimo il cast vocale: Jonas Kaufmann ha tutta la tenerezza lirica che si temeva potesse perdere cantando ruoli wagneriani, Anja Harterios è una Elisabetta al tempo stesso imperiosa, politicamente sensile ed appassionata, Thomas Hampsons un Rodrigo maturo e vellutato, Ekaterina Semenchuck una principessa di Eboli mefistofelica, Matti Salminen un Filippo II che assiste tormentato allo sgretolarsi della propria famiglia e del proprio Impero, Eric Halfvarson un grande Inquisitore squisitamente politico (più che religioso), l’anziano Robert Lloyd un Carlo V (mascherato da monaco) ancora possente. Dieci minuti di standing ovation dopo tante ore in teatro suggellano il successo di questa prima mondiale sui generis.