Nel maggio del 1994 i Marlene Kuntz esordivano sul mercato musicale con “Catartica”, ridefinendo pesantemente le coordinate stilistiche della musica italiana. Andandosi ad aggiungere a formazioni già presenti da qualche anno nella penisola come Casino Royale e Ritmo Tribale (più tardi arriveranno anche gli Afterhours di Manuel Agnelli, che all’epoca incidevano ancora in inglese), la band di Cuneo dimostrava una volta per tutte che l’Italia non era semplicemente figlia del melodramma e dei cantautori e che si poteva suonare rock senza per forza di cose rifarsi a Vasco o a Ligabue.
Il grandissimo successo di “Catartica” (uno dei grandi capolavori di cui possiamo andare fieri nel nostro panorama musicale), seguito dagli altrettanto validi “Il vile” e “Ho ucciso paranoia”, ha proiettato i Marlene Kuntz tra i grandi del rock italiano e, assieme ai colleghi Afterhours, li ha resi capofila di una vera e propria scena che, nella seconda metà degli anni novanta, ha realmente tentato di cambiare le cose.
Purtroppo non tutte le promesse sono state mantenute: un certo tipo di musica è rimasto di nicchia e tutto è rientrato nella normalità. Nel corso degli anni, disco dopo disco, la carica eversiva e l’irruenza sperimentale del terzetto piemontese sono andate affievolendosi e sono arrivati una serie di dischi buoni, a volte anche ottimi, ma che presentavano una band stabilmente attestata su una formula felicemente collaudata e priva di scossoni.
L’ultimo periodo poi, non è stato particolarmente sereno: un disco “Ricoveri virtuali e sexy solitudini”, che non ha venduto come avrebbe dovuto e la partecipazione sanremese del 2012 che ha di fatto raccolto poco, complice forse anche un brano non all’altezza.
Ad ogni modo, Cristiano Godano, Riccardo Tesio e Luca Bergia sono di nuovo qui, più vivi che mai e non hanno nessuna intenzione di mollare. Pochi giorni fa è uscito “Nella tua luce”, nono album in studio, un lavoro che ha avuto una gestazione lunga e non sempre semplicissima ma nel quale i nostri hanno creduto sempre fermamente, fino al punto da produrselo in maniera autonoma, una novità nella loro lunga carriera.
Un disco che, è bene dirlo subito, ci restituisce i Marlene migliori. Non quelli delle origini (del resto sarebbe stato inutile, oltre che anacronistico) bensì quelli più classicamente rock dell’ultimo periodo. Non si tratta di un capolavoro (anche qui bisogna essere onesti) ma di un prodotto validissimo, dall’eccezionale cura sonora e forte di un lavoro di arrangiamento veramente superbo. Un disco che non cala mai di tono e che vive alcuni picchi di rara profondità in un paio di brani che potrebbero essere annoverati tranquillamente tra i migliori da loro composti.
“E’ la prima volta che siamo interamente responsabili del processo di produzione – ci hanno detto i tre negli uffici della Sony di Milano, dove ci siamo recati per la presentazione del disco – ci piace immaginare che rappresenti una sorta di ripartenza. Non tanto per una questione di suoni, quanto per una energia rinnovata molto forte, che è esattamente l’opposto di quanto avvenuto nel disco precedente. All’epoca ci trovavamo infatti nel nostro picco di disillusione nei confronti del mondo della musica. La rivoluzione di internet, all’inizio degli anni duemila, non ci ha fatto bene. Ci trovavamo nella situazione di stare preparando un disco che non pensavamo sarebbe stato comprato e ascoltato a dovere. Diciamo che “Ricoveri virtuali” ha rappresentato la fase finale di quel periodo negativo. Da lì in avanti, abbiamo sfoderato una grinta nuova, abbiamo capito che tutti, prima o poi, qualunque mestiere facciano, si devono reinventare. Ci siamo galvanizzato ed infatti questo è un disco pieno di energia positiva. Anche il titolo, “Nella tua luce”, ha a che fare con questa positività.”
Un disco che, facciamo notare, è equamente diviso tra sfuriate rock e momenti più intimi e delicati. “E’ un qualcosa che si riflette anche nei testi – ci dice Cristiano Godano, cantante e autore delle liriche – normalmente nascono prima le musiche, solo in un secondo tempo decido cosa scrivere. Le prime due canzoni ad essere state composte sono state “Seduzione” e “Giacomo eremita”, che hanno dei riff di chitarra belli massicci, in stile Black Keys, tanto per capirci. Queste atmosfere hanno fatto scaturire testi più “carnali”, per così dire. Poi ci sono cose più tranquille, alcune delle quali scritte da me alla chitarra, che hanno evocato testi più in sintonia con la componente spirituale dell’amore.”
E’ l’occasione per domandare delle molte influenze letterarie presenti in questo lavoro. Godano è anche scrittore e da sempre i suoi testi hanno goduto di una certa ricercatezza. Si rimane comunque piacevolmente sorpresi, a cogliere riferimenti che spaziano dalla Clizia di Montale alla Beatrice di Dante, passando per Oscar Wilde e, soprattutto, Osip Mandel’stam, un poeta russo che non può certo dirsi conosciuto dalle nostre parti e che forse per la prima volta entra a far parte di una canzone rock.
“Sono molto orgoglioso di questa canzone – ci dice Cristiano – stavo leggendo un libro su Mandel’stam in quel periodo. Io amo molto la letteratura russa, anche se non sono un esperto. Mandel’stam è considerato uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo ed era anche un dantista riconosciuto, ha scritto numerosi saggi sulla Commedia. La sua è una storia tragica: è stato mandato a morire nei gulag da Stalin perché aveva scritto una poesia contro di lui. Stavo leggendo proprio il libro scritto dalla moglie, che si è impegnata a tenere viva la memoria della sua vicenda. Addirittura, si era imparata a memoria tutte le sue poesie, in modo che non andassero dimenticate. Tenerle in casa scritte, infatti, poteva essere molto pericoloso… E’ una cosa che mi commuove, una storia d’amore così forte, così impermeabile al destino avverso…”
Diverso è invece il discorso de “Il genio”, uscita come primo singolo: “Si tratta di un esercizio di stile, il tentativo di giocare con delle citazioni di Oscar Wilde, mettendole insieme per creare un testo. Di mio ci saranno al massimo due frasi, il resto viene tutto da lui. Anche perché, in tutta onestà, come avrei mai potuto cantare ‘non avere da niente da dichiarare eccetto che il proprio fulgido genio’? (ride NDA) Quella è una frase pronunciata effettivamente da Wilde. Che del resto era un personaggio così, era talmente avanti nella provocazione che tante volte veniva frainteso. E’ un problema che c’è anche con le canzoni, con le poesie: il linguaggio poetico può suggerire delle cose, ma poi sta al lettore il compito di contribuire con la propria interpretazione. La poesia vive di suggestioni e misteri ma, a pensarci bene, il grande poeta non bara. Il grande mistero, nel suo caso, è sempre lì da afferrare. Prendi uno come Montale: è difficile da leggere, certo, ma ha già dentro tutto. Sei tu che ti devi dare da fare per afferrarlo ma se lo fai, allora il premio è lì, lo puoi afferrare. Ma nel disco ci sono anche canzoni che parlano di problemi della vita reale. Al centro della vicenda di “Adele”, ad esempio, c’è il dramma dello stalking: “E’ una di quelle canzoni in cui la realtà stimola la mia fantasia. In questo caso, ho voluto parlare dello stalking, che è un fenomeno che spesso e volentieri sfocia nel problema grave del femminicidio, di cui oggi le cronache sono piene. Io non lo so se alla fine Adele morirà, nella canzone non lo dico. So soltanto che sta vivendo un periodo bruttissimo e che, probabilmente, alla fine sarà costretta a rinunciare a tante cose della sua vita, per sfuggire da quella situazione.”
C’è poi “Catastrofe”, uno dei pezzi musicalmente meglio riusciti, che contiene anche una interessante e non scontata riflessione su quanto sia difficile, se non impossibile, stare di fronte alle disgrazie altrui: “Nella fase in cui stavo scrivendo i testi dell’album mi capitava di fare la spola tra Milano e Roma. Passando per la stazione Garibaldi vedevo spesso un tizio che viveva in strada, accompagnato da cumuli di cartone e da tutti gli oggetti raccolti nel corso di una vita. Questa figura mi ha suggerito l’idea di raccontare una storia del genere, di una persona normalissima, una persona come noi, che un giorno perde tutto e si ritrova a vivere per la strada, come un barbone. Noi pensiamo sempre che sia impossibile che possa capitare a noi una cosa così, ed è anche abbastanza ragionevole, come pensiero. Però a molti è capitato, magari non hanno avuto la forza di chiedere aiuto e improvvisamente, quasi senza accorgersene, ci si sono ritrovati dentro. E tutte le volte che ci capita di incontrare qualcuno di loro siamo mossi da una specie di pietà che però non serve a niente. Ci preoccupiamo per cinque minuti ma poi andiamo avanti per la nostra strada e ce ne siamo già dimenticati. E forse, da un certo punto di vista, è normale che sia così. In effetti i versi finali di questa canzone (“La mia solidarietà mi nausea perché è inutile”) sono una sorta di grido disperato di chi si rende conto che non è in grado di fare nulla per loro.”
Difficile non toccare anche l’argomento di internet, visto che lo hanno tirato in ballo loro all’inizio. Su questo, non hanno peli sulla lingua: le nuove tecnologie e la disponibilità senza limiti di musica hanno fatto più male che bene agli artisti e all’industria discografica: “Non ho mai sopportato l’ondata di ipocrisia politically correct da parte di molti miei colleghi, che si dicevano contenti per quello che stava succedendo, perché a detta loro le uniche ad essere penalizzate sarebbero state le case discografiche. Se tutti noi ci siamo appassionati di musica, sin da quando eravamo ragazzi, è stato perché le case discografiche rendevano disponibili dischi che accendevano le nostre passioni. Il problema è reale, c’è poco da fare. Da un giorno all’altro il nostro lavoro, che prima era remunerato in un certo modo, ha iniziato a fruttare la metà. Non è una situazione facile. I musicisti oggi guadagnano poco e c’è tutto un proliferare di musica di cui certo non si sente il bisogno. La cosa che fa ridere è che, quando una categoria sociale perde il lavoro tutti si preoccupano, c’è un’opera di sensibilizzazione, ecc. Se la stessa cosa capita ai musicisti se ne fregano tutti. Ma qui bisognerebbe aprire il capitolo della mancanza di una certa cultura, fenomeno tipico italiano…”
Verrebbe naturale pensare che, stando così le cose, presto assisteremo alla scomparsa dell’album vero e proprio, un prodotto che soprattutto le nuove generazioni non sono più abituate a fruire, impegnate come sono a saltare da un mp3 all’altro: “Non sappiamo che cosa ne sarà dell’album, se morirà oppure no. Certamente, noi siamo nati in un’epoca in cui il disco rappresentava un percorso, un mondo sonoro. E per noi la creazione di ogni nuova opera rappresenta innanzitutto questo. C’è da dire però che quando è nata la discografia non c’era l’idea dell’album, esisteva solo il 45 giri. Può essere dunque che si tratti solo di una parentesi anche se, adesso come adesso, non credo esista un’alternativa all’album. Se esistesse, magari sarebbe diverso ma in mancanza di meglio credo che tutti gli artisti sentiranno sempre il bisogno di scegliere questo formato per le loro nuove creazioni.”
“Il business discografico – aggiunge il chitarrista Riccardo Tesio – si è ormai spostato sulle grandi piattaforme come Youtube e Spotify ma quando comandavano le case discografiche, c’era tutto un giro di fotografi, grafici e registi che guadagnava col lavoro dei musicisti e aveva la possibilità di portare avanti i propri progetti. Oggi tutto questo è impossibile: noi stessi, quando eravamo con la EMI, faticavamo a girare video perché i budget a disposizione erano troppo bassi. Il risultato finale dunque è stato un impoverimento complessivo: oggi per un giovane che vuole fare il musicista è praticamente impossibile riuscire ad emergere. Quel che rimangono sono i grandissimi nomi, quelli che muovono milioni di euro, e i giovani artisti usciti dai talent, che possono godere di una sovraesposizione mediatica. Per tutti gli altri è dura…”.
Viene dunque da pensare che non siano state del tutto fuori luogo le critiche che Thom Yorke ha rivolto qualche tempo fa a Spotify, reo di corrispondere somme ridicole agli artisti per lo sfruttamento del loro catalogo: “Le critiche sono anche giuste ma lui è l’ultimo che dovrebbe parlare. I Radiohead il fenomeno internet lo hanno cavalcato ampiamente, quando hanno deciso di mettere i loro dischi gratis in rete. Sono d’accordo con quello che ha detto Thurston Moore dei Sonic Youth, secondo cui quella è stata una mossa arrogante, dato che non tutti avrebbero avuto la possibilità di fare una cosa del genere, imponendo certe scelte alla casa discografica.”
In fin dei conti però, lo hanno detto anche loro senza problemi: il periodo della rabbia è passato, è tempo di voltare pagina. Anche perché, una band come la loro ha la fortuna di avere una larghissima base di fan che non vede l’ora di assistere al loro ritorno sui palchi: “Faremo tre date di presentazione del disco a novembre, una a Moncalieri, una a Trezzo sull’Adda, l’altra a Roma. E’ una cosa che abbiamo fortemente voluto, è la prima volta che organizziamo un’anteprima del genere per un nuovo disco. Per il tour vero e proprio invece, se ne parlerà l’anno prossimo.”
Per chi c’è, ci si vede a Trezzo. Sarà una grande occasione per testare dal vivo la resa di un disco che, lo ripetiamo, merita fortemente di essere ascoltato. E possibilmente comprato.