Grandi piccoli miracoli dei nostri tempi. Un ensemble che raccoglie una storia di vite che si incrociano all’insegna della stima reciproca. Parentele e connessioni.  Affinità musicali e senso comune del rischio per avventure artistiche che si snodano su strade impervie.  Filiazioni legittime e adozioni in quella che forse è stata ed è la più grande famiglia ed esperienza musicale che il rock colto abbia partorito.  Lanciati all’inseguimento di chimere o perlomeno di realtà tutt’altro che rassicuranti e decifrabili.  Dentro giorni e notti dove tutto è possibile e l’impossibile rischia di diventare il senso del tutto.



L’art-rock, ovvero quel mondo incantato, malinteso, dimenticato e poi recuperato con la fatica e la pazienza di chi sa che lo sforzo potrebbe essere vano al cospetto di un mondo se la potrebbe tranquillamente ridere.  Eppure quella musica, quel genere/non-genere, frainteso e tramutato nell’etichetta postuma e bisbetica di prog-rock era nato come slancio travolgente e genuino verso il mondo delle sette note come apertura all’intero universo-mondo con vista direttamente sull’infinito come visione e desiderio.  



Il grande lascito storico è quello dei Genesis, i protagonisti, gladiatori, i cavalieri che potrebbero fare l’impresa sono Dave Kerzner e Simon Collins.  Quest’ultimo erede di sangue del puro talento ritmico e dell’abilità vocale del padre Phil.  Il primo, musicista/tastierista ideatore della grande avventura tecnologica della Sonic Reality (plug-in capaci di riportare con fedeltà matematica su tastiere di concezione moderna gli antichi e corposi germi musicali dei synth polifonico/analogici), nonché recente fornitore sonoro e figlio musicale adottivo del genio puro e testardo di Tony Banks.



Ecco allora che da una compartecipazione perfetta nella produzione, grazie alla complicità del sound engineer Nick Davis (anch’egli uomo ombra degli ultimi Genesis in studio e soprattutto live fino al loro strepitoso congedo del 2007) e a un manipolo di buoni musicisti di complemento (Kelly Nordstrom e Matt Dorsey a scambiarsi chitarre e basso), nasce una sorta di miracolo che è prodigio a tutti gli effetti per la passione e cura che sgorga e traspare da note, spunti e intuizioni.  

Un disco – Dimensionaut (sorta di concept dedicato a un “navigatore della dimensione”) – che accetta in pieno pro e contro della modernità che ha ereditato quella tradizione ma che al contempo recupera l’originario anelito d’autore che ha contrassegnato l’avventura Genesis.  Da una parte accomodamenti sonori all’insegna di un surplus di energia tra cenni hard rock e atmosfere power, dall’altro il gusto e la lodevole tenacia di affrontare la fatica di cucire vere e proprie canzoni addosso a intuizioni strumentali che non si fermano al livello del facile e astuto strutturalismo.

E la scoperta passo dopo passo tra i solchi è così gustosa, potente e felice da lasciare il desiderio di una riscoperta dopo il primo incontro.  Così  l’enfasi pump di Sound of Contact e Cosmic Distance Ladder apre ampi varchi all’uso ispirato di accordi di ascendenza banksiana che danno linfa e grande respiro alla melodia.

La traversata tra i solchi regala sorprendenti e vitali combinazioni di AOR con melodia dal tratteggio ispirato e dall’elevato tasso di scorrimento.  Così ad una anthemica Pale Blue Dot segue una cadenzata e disinvolta Not Coming Down fino alla densità atmosferica di una Closer to You che ammicca tra senso del dramma e romanticismi in reciproca compenetrazione.

Il discrimine decisivo che fa pendere le sorti del dio segreto della musica dalle parti del disco è in alcuni brani che intagliano le più svariate soluzioni sonore su un canovaccio di canzoni molto differenti per struttura e intenti.  Da una pragmatica ed efficacissima Remote View che spezza la sua regolarità con calibrati riff arpeggiati a scombinare lo scenario, a una Omega Point che mette in circolo battaglie tra asprezze sonore e ossessivi rigurgiti di melodia.

Per concludere e gradire un trittico che sparpagliato qua là nell’album aggancia scampoli di straordinario.  Se l’epilogo pirotecnico di Mobius Slip unisce in maniera talora discontinua la potenza evocativa delle prodigiose epopee ritmico/armoniche del binomio Banks/Collins alla benedizione di nuovi effetti ed intuizioni,  Beyond Illumination – grazie alla sapienza di Kerzner nel rimodellare l’ultima sortita di Banks nel mondo del rock – fa esplodere accordi di piano e cantato di grande incisività in  splendido connubio con l’invincibile delicatezza del tocco vocale di Hannah Stobart.

Questa e la title track I Am (Dimensionaut) si proiettano dalle parti di quel patrimonio straordinario e ce lo servono come resuscitato, fresco, con la bellezza di un gusto che porta in grembo l’antico e il nuovo.  E allora si chiude in gloria con questo slow cadenzato che tra colori caldi e tempra romantica, viene spezzato da un repentino e fragoroso strumentale che ripercorre il passo glorioso delle big ballads firmate dal tastierista dei Genesis nel triennio 1978-1980 (ivi inclusa la straordinaria sortita solista di A Curious Feeling).  Uno sgargiante tappeto di rullate assortite di Simon Collins sulle quali Kerzner – alla maniera di quel mirabile Banks d’annata – gioca con note e progressioni, mescola accordi ricchi di furore e drammaticità all’eleganza di virtuosismi sottili e dosatissimi.  

Un disco bello e sorprendente, una di quelle inaspettate seconde venute nel mondo della musica dove in definitiva non sono tanto gli artisti a cercare una nuova dimensione quanto piuttosto è la dimensione sconfinata della grande musica che attende di essere catturata e decifrata dall’intuito di artisti vivi e inguaribilmente curiosi.