Ci sono pietre miliari, nel corso di una vita artistica, capaci di condizionarne l’intero percorso. È certamente il caso di Mike Oldfield, eclettico e geniale compositore e polistrumentista inglese, il cui nome è indissolubilmente legato a un capolavoro difficilmente etichettabile, un turning point di incredibile fascino, quel Tubular Bells che nel lontano 1973 lanciò un giovane ventenne alle porte del paradiso. Una lunga suite concettuale e interamente strumentale ricchissima di spunti innovativi, la cui realizzazione vide lo stesso Oldfield alle prese con trenta strumenti diversi, una specie di miracolo mai più ripetuto. Eppure, come tutti i capolavori che si rispettino, il cammino verso la gloria non fu certamente in discesa: dopo innumerevoli rifiuti da parte delle case discografiche interpellate, il merito (e la fortuna) della pubblicazione si deve a un’altra mente geniale, stavolta in chiave imprenditoriale, un certo Richard Branson, il cui nome ha ripreso a circolare in questi giorni grazie all’ennesima iniziativa da manager di razza, il volo orbitale che porterà qualche fortunato milionario a distrarsi tra le stelle. 



Ma il primo, vero colpo fu proprio la pubblicazione di Tubular Bells dell’amico Mike grazie alla fondazione della Virgin Records, un’idea rischiosissima che come i grandi progetti deve più di qualcosa al caso, all’incoscienza e al sogno di provarci. Il 33 giri, primo titolo di una catalogo prestigioso, fu un successo di vendite – oltre sedici milioni di copie sparpagliate sull’intero globo – grazie anche al film L’esorcista, che ne utilizzò la prima parte come colonna sonora portante. Insomma, non esiste appassionato di musica che sullo scaffale non abbia questo album: sarebbe un sacrilegio.



Ma come tutte le più belle cose, questa suite che univa rock, folk e sperimentazione divenne ben presto una presenza ingombrante, e lo è stata per un’intera carriera, tanto che ancora oggi Mike Oldfield è “l’autore di Tubular Bells”, oppure “quello de L’esorcista”. Il fatto è che l’ombra della luce, e cioè tutto quello che Oldfield ha registrato in circa vent’anni, o almeno fino agli inizi dei novanta, è spesso materiale di prima fascia, troppo spesso bistrattato – o peggio, ignorato – dalla critica che conta, quella che, almeno fino a una decina di anni fa, aveva voce in capitolo per quanto riguarda i consigli per gli acquisti.



Vero, Mike provò più volte a ripetere la formula vincente con dischi-suite e grandi progetti – sempre molto interessanti ma mai all’altezza dell’esordio a livello di vendite e prestigio –, fino all’avvento del punk, che spazzò via progressive e intellettualismi pentagrammati divenuti ormai indigesti e quindi destinati a soccombere alle nuove energie e agli spasimi di ribellione.

Ma il taciturno inglese non si perse d’animo e capì benissimo la direzione che stava prendendo il mercato. Le sue suite divennero dapprima racconti strumentali più “accessibili”, poi cedettero gradualmente e parzialmente il passo alla canzone, agli inizi degli anni ottanta: gradualmente perché, già da Platinum (1979), tra i solchi cominciò a far capolino una voce femminile in un paio di tracce, parzialmente perché album come Five Miles Out (1982), Crises (1983) e Islands (1987) alternavano una facciata (ai tempi c’era il vinile…) interamente strumentale a un’altra di canzoni.

Il catalogo di Mike è in fase di ristampa da alcuni anni, con edizioni deluxe ben confezionate (ma la scelta, ovviamente, può limitarsi ai singoli album con qualche bonus track) e pubblicate in rigoroso ordine cronologico. Il 2013 vede finalmente il recupero di Five Miles Out e Crises, quest’ultimo il disco che più di ogni altro rappresenta il punto di svolta della sua carriera e un nuovo sussulto per la notorietà internazionale al tempo un po’ appannata: molto bello Five Miles Out, che racchiude, tra le altre, il secondo capitolo della trilogia Taurus (che va a occupare tutto il lato A, diciamo la parte iniziale in gergo cd) e il primo vero singolo pop rock, Family Man, un brano gradevolissimo cantato dalla musa Maggie Reilly, voce splendida che si rivelerà determinante nell’immediato futuro; gran disco Crises, non fosse altro per una canzone diventata ormai classico senza tempo, la bellissima Moonlight Shadow, ovvero “la” canzone pop, suonata magistralmente e interpretata alla perfezione. 

L’estate del 1983, anche qui da noi (pare strano ma è così), la voce calda e sensuale della Reilly imperversava sulle nostre radio insieme aVamos a la playa dei Righeira, facendosi notare per quella melodia immediata e irresistibile. Nell’edizione appena ristampata (sia nella doppia deluxe, sia nel cd singolo) Moonlight Shadow è presente in tre versioni: originale, unplugged ed extended, dovuto tributo a un singolo che raggiunse il primo posto in classifica in molti paesi europei e non solo, Italia inclusa. La piacevolissima melodia non tragga in inganno: la canzone ha tonalità oscure, spesso si è pensato che si riferisse all’assassinio di John Lennon, possibilità che lo stesso Oldfield non ha mai negato, pur citando come fonte di ispirazione principale il film Houdini con Tony Curtis e Janet Leigh del lontano 1953, soprattutto per la forte connotazione spiritistica e soprannaturale.

Il primo brano dell’album, oltre venti minuti (il vecchio lato A, per intenderci), è il lungo strumentaleCrises, poi si passa alle canzoni, che oltre al singolo di maggior successo dell’intera carriera di Oldfield racchiudono un altro piccolo capolavoro, Foreign Affair, di nuovo interpretato dalla cantante scozzese (autrice anche del testo), una pop song perfetta dall’andamento ipnotico, rarefatto e sognante. Jon Anderson, storica voce degli Yes, interpreta In High Places (e contribuisce al testo), mentre Roger Chapman offre una straordinaria prova di carattere nella resa di Shadow on the Wall, brano di impostazione rock che sferza l’aria con la sua elettricità e l’impianto lirico decisamente anomalo che rende perfettamente l’atmosfera dell’interrogatorio a un criminale, un’ombra sul muro, un ingranaggio difettoso. Al tempo divenne il secondo singolo tratto da Crises, e anche di questo brano sono presenti le stesse versioni del fortunato predecessore. Infine, c’è posto per l’ultimo capitolo della trilogia Taurus, un incredibile saggio di virtuosismo chitarristico che dovrebbe essere ascoltato da molti musicisti che si apprestano a imbracciare lo strumento, una grande prova di abilità da parte di un genio che porta la musica nel suo dna.

Tra le bonus, oltre alla variazioni sul tema dei due singoli sopra citati, spiccano Mistake e Crime of Passion, due 45 giri realizzati durante le session che separano Five Miles Out da Crises (il primo, con Maggie Reilly alla voce) e quest’ultimo dal successivo (e bellissimo) Discovery (il secondo, con l’interpretazione di Barry Palmer), forse il punto più alto del Mike Oldfield pop-songwriter. Crime of Passion ha un’impostazione che ricorda Moonlight Shadow – anche nelle tematiche tristi e oscure –, ma brilla di luce propria e mantiene ancora inalterato tutto il suo fascino, anche in questo caso grazie all’impianto chitarristico fluido e magnetico. Per fortuna, lo stesso Oldfield si è ricordato di inserire l’allora lato B, lo strumentale Jungle Gardenia, un colpo al cuore per intensità e atmosfera, qualità che non proprio tutti riescono a rendere così bene.

Il secondo cd della deluxe ci regala parte di un concerto inedito tenuto alla Wembley Arena il 22 luglio del 1983: nella scaletta i primi due capitoli di TaurusCrisesMoonlight ShadowShadow on the Wall eFamily Man. Esiste anche una supedeluxe (3 cd e 2 dvd) per i fan più accaniti e per chi desideri approfondire un periodo meno “prestigioso” ma assolutamente importante (e di valore) di uno degli artisti più originali e innovatori del nostro tempo.