Probabilmente anche Don McLean fu colto di sorpresa, quel triste giovedì di settembre del 1973, il 20 per la precisione. Chissà, forse pensò di riscrivere quella canzone ormai famosissima, la stessa che lo aveva scaraventato improvvisamente nell’olimpo dei grandi: “The day the music died” ripeteva quel brano di otto minuti e passa uscito un paio di anni prima e diventato con il tempo un classico senza bandiera. In effetti, American Pie ricordava un disastro aereo molto simile a quello verificatosi quel giorno: il 3 febbraio 1959, in un sol colpo persero la vita Buddy Holly, Ritchie Valens e J.P. Richardson, tre grandi speranze del rock’n’roll americano pronte a scalzare Elvis dalla vetta delle classifiche. Al concerto di Fargo, North Dakota, i tre non arrivarono mai. E quella data segnò, secondo il cantautore – ma non solo per lui –, la morte della musica.



Quattordici anni dopo il destino – mai benevolo con la poesia della vita – volle che la stessa tragedia si ripetesse. A bordo dell’aereo, stavolta, non c’erano tre rocker di belle speranze, ma un cantautore gentile e pacato, poetico e malinconico. James Joseph Croce – Jim per gli amici e le copertine dei dischi – era in tour e stava lasciando l’aeroporto di Natchitoches, in Louisiana, insieme al fidato polistrumentista Maury Muehleisen e altri tre passeggeri. Il velivolo non riuscì a prendere quota e andò a schiantarsi contro un albero, l’unico, a quanto si dice, nel raggio di centinaia di metri intorno alla pista. Nessuno riuscì a salvarsi, e forse anche la musica morì per la seconda volta, privandoci di una voce che non ha avuto eredi o talenti che potessero anche lontanamente eguagliarla, raccogliendone il testimone. E dire che Jim era in pena, voleva trascorrere più tempo con la moglie Ingrid e il figlio piccolo Adrian James, la vita on the road non gli si addiceva, insomma, desiderava tornare a casa, chiari indizi di un carattere lontano anni luce dagli stereotipi della rockstar molto in voga già all’epoca. Trent’anni appena, la strada del successo finalmente spianata davanti dopo innumerevoli tentativi e scarsi risultati, in un’alternanza tra chitarre e blue collar job, folk song ispirate dal finestrino di un camion e jingle commerciali per una radio locale di Philadelphia.



Di acqua sotto i ponti ne era passata, in quattordici anni, da quando cioè Buddy Holly e compagnia avevano deciso di portare altrove il verbo del rock: i sessanta, il folk di protesta, il beat, Bob Dylan, i Beatles, la psichedelia, gli Stones, insomma, la Musica. E poi la fine di un’epoca, di una speranza di libertà che libertà non poteva essere, almeno intesa in quel modo, fino all’introspezione, alla nascita cioè di un cantautorato intimista all’inizio dei settanta, quando gli ideali lasciarono le comunità per accoccolarsi tra le mura di casa, feriti ma non per questo meno intensi.



Quel maledetto 20 settembre di quarant’anni fa la musica morì per la seconda volta, anche se nessuno se ne accorse. Perché Jim Croce non era un semplice songwriter, le sue melodie straordinarie non si limitavano a dipingere sentimenti e amore malinconico, ma andavano ben oltre. In pochi, come lui, sono stati in grado di navigare la tradizione americana con una tale leggerezza e naturalezza da lasciare ancora l’amaro in bocca per quanto avrebbe potuto regalarci: folk, country, rock, pennellate decise di rhythm’n’blues erano un mezzo e non un fine per arrivare a destinazione e dispensare emozione e ironia. Grazie a lui l’intimità stava di nuovo uscendo di casa per andare a passeggiare, a osservare la nuova realtà in divenire con occhio disincantato ma sicuro di ciò che veramente conta. Un poeta, Jim Croce, ma non un poeta maledetto. Non fu ucciso dalle droghe e dagli eccessi come tanti suoi colleghi nello stesso periodo, che nel giro di due mesi scalarono la vetta del mito. No, si trattò semplicemente di un errore umano, oppure di un guasto meccanico. Ed è per questo, molto probabilmente, che in pochi si ricordano di lui in un’epoca che schiaccia nell’oblio anche l’altro ieri se non ci sono talk show a santificare l’ultima star di turno a suon di urla e incompetenza.

Dobbiamo dire che ultimamente, per fortuna, un artista illuminato lo ha omaggiato a dovere: il grande Tarantino, cineasta tra i migliori in circolazione, ha utilizzato I Got a Name nella colonna sonora del suo ultimo film, Django Unchained, tanto per dirci che oltre alla pellicola conosce bene anche la musica.

Jim Croce cantava senza far rumore, le sue non erano invettive, solo paesaggi dipinti dal ricordo e da una segreta malinconia da ricercare probabilmente nelle sue origini italiane (suo padre Croce, sua madre Babucci). Voce profonda e particolare, baffoni scuri che lo rendevano molto meno giovane di quanto fosse in realtà, una timidezza di fondo e un cuore sensibile che immagazzinava e rielaborava qualsiasi spiffero proveniente dall’esterno. Infine, tanto per non tradire la sua origine, una simpatica ironia che stemperava in canzoni zeppe di amore e sentimento. Un tale chiamato Frank Sinatra, per dirne una, notò una di queste “caricature” del duro e del bullo americano, Bad, Bad Leroy Brown, e la fece sua: inutile dire che essere coverizzati dal vecchio Frank altro non è che un infallibile attestato di grandezza.

Di gavetta Jim ne aveva fatta parecchia, raggiungendo la fama alla soglia dei trent’anni, compreso un periodo di “esilio” a New York, dove si esibiva con la moglie Ingrid nelle coffe house, alla fine degli anni sessanta. I due interpretavano canzoni folk, dandosi soprattutto una mano per stemperare il profondo disagio che li attanagliava. La grande mela fu presto abbandonata, compresa la chitarra, per un ritorno nella natia Pennsylvania: c’erano debiti da pagare, una famiglia da mantenere e poca voglia di assoggettarsi al music business. Tra vari mestieri, Jim continuò a comporre canzoni, quelle che andranno infine a rappresentare l’ossatura della trilogia del successo che lo porterà a scalare le classifiche nel giro di un anno o poco più, tra il 1972 e il 1973: i tre album, You Don’t Mess Around with JimLife and Times e il postumo I Got A Name, tutti usciti per la ABC Records, che finalmente aveva creduto in lui. 

Ci sono capolavori assoluti che fanno emergere tutto il talento di un autore superbo, capace come pochi di tradurre in colore i sussulti dell’anima, un amore sfumato di malinconia e tristezza, perché un sentimento così intenso non può essere ingabbiato tra gli argini della quotidianità e c’è sempre qualcosa che manca e non si può riempire. Nelle ballate, i suoi arpeggi di chitarra ricamano le ombre della sera e della riflessione, con quella dolcezza che lascia un senso di nostalgia che si cristallizza in un attimo (la meravigliosa I’ll Have to Say I Love You in a Song, oppure New York’s Not My Home, ricordo del difficile periodo newyorchese, passando per Photograph and Memories, ricordi di un amore perduto, fino a The Hard Way Every Time, poetica riflessione sulla durezza della vita); talvolta c’è un piano a inserirsi nei suoi ritratti poetici, come in Alabama Rain, una delle canzoni migliori in cui si rammenta un amore giovanile vissuto in perfetta simbiosi con la natura; altre volte invece l’impostazione R&B serve per declinare al meglio la sua ironia, come nella citata Bad, Bad Leroy Brown (ma anche You Don’t Mess Around with Jim e Hard Time Losin’ Man, tra le altre, fanno parte della categoria). 

Impossibile citarle tutte, basti ricordare che la porta del successo fu spalancata da una canzone brillante e spensierata dal titolo Operator (That’s Not the Way It Feels), rimembranza dei suoi trascorsi nell’esercito dove un soldato cerca di mettersi in contatto con la fidanzata che ormai si è già consolata per la sua assenza sostituendolo con il suo migliore amico.

Le canzoni di Jim Croce hanno la forza di concentrare un periodo storico e tramandarlo ai posteri senza soluzione di continuità (Time in a Bottle, verrebbe da dire citando una delle sue hit più riuscite, anche se in questo caso sarebbe più opportuno parlare di time in a song). La musica rappresentò un perfetto strumento per esprimere sentimenti comuni in modo non comune, quell’amore che resta l’unica ancora di salvezza per assaporare il cielo e la libertà. La sua poetica può essere riassunta e condensata in una canzone, I Got a Name, o meglio, in una strofa che dobbiamo per forza citare: “Like a fool I am and I’ll always be / I’ve got a dream, I’ve got a dream / They can change their minds but they can’t change me / I’ve got a dream, I’ve got a dream / I know I could share it if you want me to / If you’re going my way, I’ll go with you / Movin’ me down the highway / Rollin’ me down the highway / Movin’ ahead so life won’t pass me by”. Ecco, la libertà dell’essere un individuo, la libertà di pensare e di non assuefarsi alle contaminazioni di un mondo che ci vuole altro rispetto a ciò che siamo. Con quella sensazione fantastica e forse un po’ in contrasto con le strutture portanti della società moderna che proprio in quel periodo stava germinando: per diventare veramente liberi bisogna essere almeno in due. Solo così si può sconfiggere la vita.