“Arrivai all’isola di Wight insieme ai Beatles. Insieme assistemmo al concerto, poi dopo andammo nei camerini a incontrare Bob (Dylan). Era contento, soddisfatto del concerto che aveva appena fatto. I Beatles avevano portato gli acetati di Abbey Road che sarebbe uscito dopo poco. Ci mettemmo ad ascoltarlo, bevemmo qualcosa. L’atmosfera era rilassata e gioiosa”. Così racconta Tom Paxton, folksinger del Greenwich Village, vecchio amico di Dylan, del concerto all’isola di Wight del 31 agosto 1969, pubblicato pochi giorni fa all’interno della versione deluxe del nuovo Bootleg Series, il volume 10, che raccoglie bani inediti o versioni differenti di quelli pubblicati nei dischi usciti nel 1970, “Selfportrait” e “New Morning”. Una descrizione certamente diversa da quella che fecero i media dell’epoca, che giudicarono complessivamente poco efficace o anche scadente quella esibizione, la prima di Bob Dylan dal maggio 1966, e che sarebbe rimasta anche l’ultima (a parte un paio di apparizioni estemporanee, al concerto per il Bangladesh e a quello di capodanno di The Band) fino al gennaio 1974.
L’aspettativa d’altro canto per quella esibizione era enorme: Dylan era stato invitato un paio di settimane prima a esibirsi al festival di Woodstck, che si era tenuto proprio in quella location perché Dylan ci abitava, a sottolineare quanto il pubblico rock volesse un ritorno sulle scene delmusicista che aveva cambiato la storia della musica, ma lui aveva rifiutato. Era invece andato a Wight, forse perché lontano da casa si sentiva più al sicuro. Una folla gigantesca, centinaia di miglia di persone era lì solo per lui, e tra di loro personaggi come appunto i Beatles. Come scrissero alcuni giornalisti all’epoca, questo era “il concerto del decennio”. A giudicare dagli applausi, come li si sente in questo disco, il pubblico a differenza dei giornalisti non fu per nulla deluso.
Riascoltato oggi, anche se era stato bootlegato in passato, ma in qualità sonora scarsa, questo concerto appare invece una formidabile esibizione. D’altro canto Dylan con i suoi amici di The Band non ha mai sbagliato: tale è l’interazione, l’amicizia, il sentir comune, la passione condivisa per la musica che con loro Dylan ha solo fatto concerti memorabili. E come sempre, Dylan era avanti o comunque fuori delle logiche del momento per poter essere apprezzato dai media. Si era in piena esplosione del movimento hippie: Woodstock aveva consacrato e lanciato nel mondo la nazione dei figli dei fiori, della contro cultura, del capello e della barba lunga. Dylan si presentò su quel palco come un gentiluomo del sud degli Stati Uniti ai tempi della guerra civile, completo bianco e camicia arancione e capello corto, molto corto. O come disse Eric Clapton, un’altra delle super star presenti quella sera, “era Hank Williams”. La voce, quella nasale e arrotondata di quel periodo, non era certo quella ruvida e cattiva dei primi tempi e neanche quella sconvolta e drogata del periodo di Like a Rolling Stone. Ma in quel concerto, la furia rock di Dylan non fu certo assente.
Le due prestazioni migliori sono infatti Maggie’s Farm e Highway 61 Revisted, quest’ultima nella sua primissima esibizione live di sempre. Dylan è scatenato, rovescia i versi con passione e rabbia insieme, è totalmente preso dalla musica che the Band dietro di lui sta facendo: Levon Helm è quel metronomo incalzante e precisissimo di sempre, Rck Danko e Richard Manuel lo incitano con il loro contro canto e Robbie Robertson non può fare altro che rilasciare le sue consuete staffilate alla chitarra elettrica mentre Garth Hudson colora il tutto con le sue tastiere carnevalesche. In Maggie’s Farm il contro canto è un grido di battaglia: “no more no more” fanno il verso a Dylan che sciorina il suo canto di libertà su un andamento boogie che nessuno può fermare. Sembrano una squadra di combattenti della Guerra di secessione in male arnese, che avanza sotto al fuoco nemico cercando di farsi coraggio con quelle urla. In Higwhay 61 la visione apocalittica degli Stati Uniti, una nazione che ha smarrito la via verso la Terra promessa annunciata dai Padri pellegrini, è resa alla perfezione: Dylan, ma chi lo ferma? L’esecuzione è infuocata, sembra anticipare quelle che verranno anni dopo ai tempi della Rolling Thunder Revue. Si capisce come ogni concerto, allora e anche oggi, di questo artista sfugga all’incasellamento temporale. E’ già oltre, oppure guarda indietro, ma comunque non è qui: “I’m not there” si intitolava d’altro canto un pezzo di quel periodo lì, io non sono là. Dylan nell’istante stesso dell’esecuzione sta vivendo la trasformazione musicale di quello che esegue.
Lo stesso Dylan lo si può sentire quasi in ogni canzone rilasciare con gusto delle urla, “one more time!”, ancora una volta, incalzando lui stesso i suoi musicisti a lasciarsi andare a questa danza rock’n’roll. In The Mighty Queen è travolto dalla musica, continua a incitare e a lanciare urla.
Ci sono altre gemme, in questa performance. Ad esempio I Pity the Poor Immigrant e I Dreamed I Saw St. Augustine. Tratte dal disco uscito nei primi giorni del 68, “John Wesley Harding”, disco per cui Dylan non aveva fatto alcuna tournée di supporto, sono eseguite per la prima volta. Ai tempi, dopo aver registrato l’album solo chitarra, basso e batteria, Dylan aveva chiesto a Robbie Robertson di sovra incidere con The Band altre parti strumentali. Robertson aveva risposto: stai scherzando? E’ perfetto così.
In queste due esibizioni live abbiamo modo di sentire come sarebbe stato quel disco con The Band: straordinario. Lo spirito è lo stesso dei Basement Tapes, con tanto di fisarmonica, la forza espressiva di The Band è ai massimi e Dylan si lascia travolgere da loro cantando fino alle stelle. Deliziosamente splendido: è la musica delle radici, è l’anticipazione di quell’alternative country che sarebbe andato di moda solo vent’anni dopo. Una parola sola dunque per The Band: non era mai esistito e mai più esisterà un gruppo rock del genere, il massimo che la musica americana ha saputo esprimere.
Ci sono infine quattro pezzi acustici. Esibirsi da soli con una chitarra acustica davanti a mezzo milione di spettatori ci vuole coraggio. Bob Dylan però non appare per nulla intimorito. Dopo una splendida Wild Mountain Thyme, classico della tradizione popolare, sfodera tre perle del suo primo periodo. Se It Ain’t Me Babe è impreziosita da continui cambi di accordo di chitarra in modo quasi frenetico e improvvisato, come abituerà il suo pubblico ai tempi del Never Ending Tour, To Ramona è di una poesia e di una delicatezza quasi impossibili. E’ un valzer messicano, con diversi stop and go, il cantato è di una tenerezza unica: commovente. Poi fa Mister Tambourine Man, una eccellente versione seppur solo di due strofe, e il pubblico impazzisce.
Abbiamo aspettato quarant’anni e passa per ascoltare integralmente questo concerto: ne valeva la pena. Una delle pagine più misteriose di Dylan è finalmente svelata e mentre la musica ci avvolge, siamo in quel campo affollato di hippie e di buone vibrazioni, seduti magari accanto a George, Paul, Ringo e John. La magia della grande musica è questa: annullare la concezione di tempo per immortalare per sempre la bellezza.