L’11 gennaio del 1999 Fabrizio De Andrè si spense, a 58 anni, all’Istituto dei tumori di Milano, vinto da un brutto male. Non c’è bisogna di dire chi fosse, ma è davvero difficile darne una definizione e un’etichetta alla sua opera, al suo contributo musicale (e non solo). Il cantautore genovese è un immortale della musica italiana; come disse Nicola Piovani: “De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano”. Il ricordo di Faber di Massimo Bernardini, giornalista e conduttore televisivo, ora presentatore di Tv Talk.



Sono 15 anni che De Andrè ci ha lasciato. È stato più di un semplice cantautore. Fernanda Pivano lo ricorda come “il più grande poeta che abbiamo mai avuto”

Parto da quello che mi è successo questa mattina. Ho ascoltato in sequenza una canzone di Guccini, una di Dalla e una di De Andrè prima di aver sentito la lettura (in lingua originale) di “Ritratto di signora” di Thomas Stearns Eliot. È stata una cosa estremamente singolare ascoltare questi cantautori prima della musicalità vera della poesia di un grande poeta…



Cosa le ha suscitato?

Ci ho riflettuto proprio a lunga ‘sta mattina. Francesco De Gregori – che è stato molto vicino a De Andrè – a chi gli dice “la tua è poesia”, risponde “altolà, io faccio un altro mestiere: faccio la canzone, sono un cantante”. La poesia è un’altra cosa: è Eliot che appunto legge i suoi scritti. La considerazione della Pivano secondo me non c’entra esattamente il  punto…

Però?

È indubbio che la potenza evocativa della grande canzone d’autore – e qui veniamo a De Andrè – è veramente un pezzo importante della nostra cultura. E oltre a scrivere delle bellissime cose, De Andrè è una voce potente, grave e dal colore unico, con un modo di pronunciare la parola inconfondibile. Come Dalla, De Gregori. Insomma, dire che è poesia è quasi riduttivo. La canzone di Faber è stata uno strumento di comunicazione formidabile.



Tant’è che ancora oggi è assolutamente viva…

È successo qualcosa di singolare per la cultura italiana con la nascita dei cantautori, di cui De Andrè è forse stato uno degli elementi più maturi. È nata un’altra forma di grande cultura. È questo il punto: una forma equivalente alla poesia, alla letteratura, al romanzo. E poi va detto che non è che siano poi tanti i grandi cantautori italiani. Secondo me quella è stata una stagione abbastanza irripetibile nel senso che la qualità della canzone attuale è imparagonabile a quella dell’era di cui De Andrè ha fatto parte.

Per quanto riguarda invece il rapporto molto stretto con Genova, come definire la sua relazione con la città?

Ricordiamoci bene di una cosa: De Andrè era un genovese dell’alta borghesia. Non era un camallo del porto. Era figlio di un grande industriale (suo padre è stato un dirigente dell’Eridania) e faceva dunque parte della Genova dei quartieri alti. Quella Genova lì si è abbassata ad indagare – senza complessi (semmai con un complesso di inferiorità, anziché di superiorità) – i quartieri bassi. De Andrè è stato il cantore degli emarginati, della Genova della prostitute, di chi non ce la fa, dei poveretti, degli spostati. E in merito…

Prego

È nata una retorica che, io personalmente, trovo insopportabile; quella del De Andrè anarchico che ama gli emarginati dalla società. Poi è vero: lui, nato nell’élite, ha raccontata lo Genova dei bassifondi. Forse, da un certo punto di vista, la generosità più potente nel suo percorso musicale è quella del disco “Crêuza de mä”, perché è una genovesità colta – bisogna essere colti per costruite un prodotto come quello – capace però di andare oltre a tutto per arrivare fino al cuore della cultura genovese…

Questo cosa ha significato?

È  la testimonianza che non c’è solo il tema degli emarginati e di quella Genova lì, bensì  quello vero e proprio della cultura della città. Con “Crêuza de mä”, sia musicalmente che letterariamente, De Andrè è arrivato ad usare il dialetto. È qui che ha toccato il suo più alto punto di genovesità, oltre a realizzare uno disco dei più belli e potenti della sua carriera.

Le sue canzoni come quelle, per esempio, di Battisti, Dalla e De Gregori resistono al tempo. Qual è il segreto per essere un’icona musicale italiana che di fatto è ancora contemporanea?

 Il segreto, sul piano creativo, è l’estremo rigore con cui De Andrè ha sempre lavorato. Tutto quello che ha prodotto (13 album, non tantissimi) ricalca gli standard della letteratura. Questo cosa significa? Dà un idea molto precisa. Ripeto: lui era molto rigoroso (anche verso se stesso) e ogni disco – soprattutto dagli anni Settanta in avanti – era un lavoro preciso in cui lui affrontava qualcosa di diverso. Il segreto chiave della sua tenuta – oltre alla sua meravigliosa voce – è che non faceva dischi per farli, bensì per lasciare un segno. Ecco, concepiva il disco come un’opera. L’eredita, il peso e la durata del suo materiale nasce proprio da qui

Personalità complessa, indomita. Difficile ingabbiarla in qualche definizione. Ma se si volesse provare?

Un genio antipatico. Io l’ho conosciuto una volta: un pomeriggio di trent’anni fa nel corso del quale ebbi una lunghissima conversazione con lui, di cui conservo gelosamente la registrazione. La sensazione che provai fu proprio questa. Da una parte non era un uomo gradevole: dentro la parola “antipatico” di metto la distanza che io sentii quella volta. Poi, innegabilmente, era un genio. In questo momento mi viene questa definizione, mi sembra la più realistica.

 

(Fabio Franchini)