Ci sono dischi e gruppi rock finiti nel dimenticatoio o peggio bollati come spazzatura per superficiale conoscenza del gruppo stesso. Chi scrive anni fa andò a vedere un concerto di uno di questi gruppi: ricordo le facce schifate delle persone a cui lo dicevo. Quella sera sul palco c’erano Paul Kantner, Marty Balin e Jack Casady (tre membri fondatori dei Jefferson Airplane, uno dei più grandi gruppi degli anni 60), oltre a ottimi musicisti di supporto. Non c’era Grace Slick che con molto più onore di tanti suoi coetanei si era ritirata dalle scene a poco più di cinquant’anni di età. Non erano gli Airplane, ma la loro incarnazione successiva, cioè i Jefferson Starship. Il concerto fu ottimo e dignitoso, ma non è questo il punto: se è vero che a partire dalla fine dei 70 e negli 80 i Jefferson Starship fecero dischi spazzatura perdendo anche metà del nome e diventando solo Starship, nella prima metà dei 70 fecero quattro, magari tre e mezzo, dischi di grandissimo livello che la memoria storica del rock ha invece eliminato dalle cronache.
Se pensiamo che quel periodo storico diede vita a band ben più grossolane ma ancora oggi all’onore delle cronache i Jefferson Starship meriterebbero senz’altro più rispetto. Soprattutto, coniarono un modulo espressivo del rock che poi avrebbe fatto la fortuna di tante band davvero grossolane, quelle del cosiddetto rock da arena, mainstream rock di bocca buona.
“Sometimes the music’s a doorway out of the darkness into the light”: a volte la musica è un portone, che dall’oscurità conduce alla luce, cantavano nella canzone che chiudeva il loro ultimo disco di livello accettabile, uscito nel 1978, quasi un addio inconscio a tutto quello che avevano sempre sognato. In fondo quello che i Jefferson Airplane poi Starship, avevano sempre cantato e desiderato era tutto qui. Al di là del grande impegno politico e rivoluzionario, al di là dei viaggi psichedelici e degli slogan da guerriglia urbana, per loro la musica era un mezzo di comunicazione, una porta che poteva spalancare le oscurità e ridare a loro e a noi la luce. Semplice, puro e bello.
Tra il 1970 e i 1976 uscirono “Blow Against the Empire”, manifesto politico e musicale di una generazione in rivolta, simbolo della comunità libertaria di San Francisco, anticipatore di quel capolavoro che fu un anno dopo “If I could only remember my nane “di David Crosby che già figurava in questo lavoro insieme agli altri guru della scena. Era una anticipazione, ma già compariva l’astronave Jefferson a scaldare i motori. Per un paio di anni gli Airplane avrebbero continuato a volare, ma era già stata lanciata la promessa di nuove avventure cosmiche. E’ nel 1974 che arriva il primo vero disco dell’astronave dopo un disco solista di Grace Slick (“Manhole”, peraltro bello anch’esso). Con una formazione autenticamente spaziale (Grace Slick, Paul Kantner, Johnny Barbata, Craig Chaquico, Papa John Creach, Pete Sears, David Freiberg in più Marty Balin alla voce in un brano, Caroline) “Dragon Fly” era un aggiornamento del sound psichedelico californiano dove fu geniale l’innesto di un violinista di colore dal tocco jazz. Un gruppo che poteva permettere un’ampia rotazione di compositori dai gusti diversi, e soprattutto due musicisti straordinari, il giovanissimo chitarrista Craig Chaquico, mai sopra le righe e dotato di un ottimo tocco un po’ alla Duane Allman, e uno dei più formidabili batteristi dei 70, anche lui oggi dimenticato, Johnny Barbata. Che gli Starship pur guardando al mainstream rock fossero dotati di un tocco di classe lo dimostrano l’iniziale Ride the Tiger, di potenza espressiva fulminante, oppure la tipica ballata californiana Caroline. Ma su tutte, una immensa Hypdedrive, sorta di mini suite pianistica, chitarristica e orchestrale guidata dalla voce di Grace Slick.
Di pezzi come questo in quello scorcio degli anni 70 non se ne sentivano, ma neanche dopo. Un anno dopo arriva “Red Octopus “insieme a un successo commerciale ormai consolidato, avendo conservato i vecchi fan ma acquisiti anche di nuovi in maggior parte. E’ un disco di più solido rock anni 70 – Fast Buck Freddie è il pezzo trainante – e di ballate pop californiano – Miracles, forse una delle canzoni pop davvero più perfette di tutti i tempi, magnetica e visionaria, un volo straordinario nello spazio cosmico. In questo lavoro riemerge anche la vecchia anima libertaria degli Airplane, nella ballatona rock I Want to See Another World, ma si sperimenta anche un azzardo rock jazz con lo strumentale Sandalphon e Grace Slick piazza il suo bel pezzo, l’accattivante Play on Love. Spazio anche per Papa John Creach con il country spaziale di Git Fiddler. Un disco dai molti volti, dove, nonostante gli Starship siano ormai un gruppo da arena rock, c’è ancora il gusto di sperimentare e soprattutto ancora una visione musicale comunitaria.
“Spitfire”, del 1976, è l’ultimo colpo di genio di questa band che poi si avvierà verso un hard rock dozzinale e di suoni sintetizzati dell’era plastica di Mtv. E’ il disco meno riuscito dei quattro probabilmente, ma anche quello che contiene il pezzo più bello di tutti e quattro i dischi e tra le cose più belle della California hippie e post hippie di sempre.
St. Charles è una suite piena di mestizia e nostalgia, con il senso della fine di un percorso storico e musicale che appare evidente nota dopo nota. Una consapevolezza che dà quasi fastidio ascoltare. C’è una presenza cattiva che sembra insinuarsi tra quello che cantano e quello che sono: “Non la senti, che sta per scoppiare la tempesta? La sento che sta arrivando, la tempesta”. E’ come essere ancora quelle persone lì, ma già consapevoli di non esserlo più. Una preghiera, una invocazione, una fuga impossibile da una realtà che, appare evidente, finirà per schiacciarli. Succederà a tutti loro. Grace Slick tra troppe bottiglie di alcol quando due anni dopo in Germania non riuscirà a salire sul palco tanto è sbronza e la sera dopo invece di cantare si metterà ad accusare il pubblico di essere dei nazisti. Gli altri persi tra montagne di coca e inaridimento creativo finiranno nella poltiglia di Mtv.
Ma St. Charles è ancora lì, ad ascoltare le invocazioni: una melodia tipica dell’era Airplane, con quel gioco di voci a intrecciarsi e a inseguirsi una con l’altra, come loro seppero inventare, che si erge altissima verso uno spazio cosmico che per alcuni anni dei navigatori folli e appassionati osarono sondare. Un riff micidiale, che compare nel finale de pezzo, come a dire, la musica non si può fermare. Un pezzo avvolgente, immaginifico, siderale, un autentico viaggio nelle note e nel tempo. Purtroppo non è così, la musica si fermò. Hanno pagato il prezzo di tutti gli umani che si sono avvicinati al sole, ma probabilmente ne è valsa la pena. Partiti dalle strade di Haight Asbury hanno inseguito un sogno e per alcuni momenti lo hanno vissuto. Era troppo bello per continuare e come ogni sogno è finito. Ma ogni volta che St. Charles comincia a suonare, esplode ancora quel desiderio impossibile, intatto come allora. “Oh, St. Charles sings, sings about love”: un po’ d’amore, era una cosa davvero impossibile da chiedere?
“Sometimes the music’s a doorway out of the darkness into the light”: a volte la musica è un portone, che dall’oscurità conduce alla luce. Alla fine era questo quello che contava, allora come oggi. Loro quel portone l’hanno aperto.