Il Parsifal in scena al Teatro Comunale di Bologna sino al 25 gennaio è spettacolo di particolare rilievo per numerose ragione. Dalla seconda metà dell’Ottocento, Bologna è considerata la città italiana ‘wagneriana’ per eccellenza perché fu la prima a mettere in scena un lavoro di Wagner (Lohengrin il primo novembre 1871; Verdi era in un palco, Boito in poltrona). Bologna fu pure la prima città italiana dove nel gennaio 1914 venne rappresentata la ‘sacra  rappresentazione scenica’ (così la chiamo Richard Wagner),appena scaduto il divieto posto dall’autore di produrre il lavoro in teatri differenti da quello da lui ideato per il Festival di Bayreuth.  Anche se da diversi anni, la sezione italiana dell’associazione wagneriana mondiale ha sede a Venezia, presso la Fondazione Levi, il Teatro Comunale  mette in scena quasi ogni anno un’opera di Wagner. Il ritorno di Parsifal nella città  felsinea era molto atteso sia perché , dopo la ‘prima italiana’ del 1914, la ‘sacra  rappresentazione scenica’ è stata ripesa unicamente nel 1931, nel 1963 e nel 1978 sia perché l’edizione del 1978 ebbe  un successo tale che venne replicata ‘fuori abbonamento’ nel 1980 sia perché il Teatro Comunale ha portato per l’inaugurazione della stagione 2014 una produzione che ha avuto un grande successo ma anche fatto molto discutere quando ha debuttato,  nel 2011, al Théâtre Royal de la Monnaie a Bruxelles.



Ho avuto la fortuna di assistere una ventina di volte ad esecuzioni dal vivo della ‘sacra  rappresentazione scenica’, ultima opera di Wagner e sua testamento alla ‘musica dell’avvenire). Di esse cinque sono state in versioni da concerto (che spesso ben si presentano ad un lavoro che presenta enormi difficoltà drammaturgiche e complesse ‘disposizioni’dell’autore per la messa in scena) e le altre in allestimenti teatrali in Europa e negli Stati Uniti.



Questa edizione si basa su una scelta di fondo: dato che nel 1882, la ‘sacra  rappresentazione scenica’ rappresentò l’avanguardia musicale più estrema, ci si è affidata a Romeo Castellucci che per vent’anni, con la Societas Raffaello Sanzio ha rappresentato l’avanguardia drammaturgica più innovativa in Italia e Francia, mietendo successi in vari Paesi. Inoltre, nelle rappresentazioni bolognesi, si è in gran misura mantenuto il cast di Bruxelles, ma si è affidata la concertazione e direzione d’orchestra per il debutto di Roberto Abbado nei misteri della complessa partitura.

All’allestimento scenico, alla regia, agli effetti speciali, ho dedicato un’analisi dettagliata sul quotidiano telematico Artribune. Quindi, questa recensione riguarda esclusivamente gli aspetti musicali. Anche solo sotto questo profilo, si è alle prese con un Parsifal differente dalla tradizione.



In primo luogo, la concertazione di Abbado. Parsifal è un’opera in cui raramente i direttori d’orchestra rispettano i tempi nonostante Engelberg Humperdinck, assistente di Wagner all’epoca del primo allestimento, abbia tenuto un diario puntuale delle prove. I direttori d’orchestra tendono a dilatare i tempi anche al fine di dare un’atmosfera più ‘sacrale’ al lavoro. Se ne ha la prova già nel primo atto, sotto gli occhi vigili di Wagner, la matita di Humperdinck cronometrò a un’ora e 45 minuti il tempo richiesto a Hermann Levy (direttore d’orchestra della prima edizione assoluta) per dirigere come voluto dal compositore. Abbado mantiene rigorosamente questo cronogramma. E’ una rarità. Nelle versioni dal vivo che ho ascoltato, lo hanno fatto solo von Matacic, Kuhn, Ferro e Sinopoli. Se tengo conto di quelle ascoltate in CD o DvD è una caratteristica principalmente di Solti. Mentre Boulez porta il primo atto ad un’ora e 35 minuti, gli atri tendono a dilatare: dalle circa due ore di Karajan, Levine e Gatti alle due e venti minuti di Toscanini.

La concertazione richiede non solo un equilibrio tra buca e palcoscenico, facilitato a Bayreuth dal fatto che il golfo mistico è incassato sotto la scena, sia effetti stereofonici, resi possibili a Bayreuth, da ‘praticabili’ in palcoscenico e nei palchi. Tali effetti sono particolarmente importanti nella sequenza (ultima parte del primo atto) della Consacrazione e dell’Eucarestia. Abbado risolve il nodo con un sipario bianco che copre l’azione (sempre delicata da rappresentare in teatro) e dislocando il coro in parte nei palchi di proscenio e nella galleria.

 

La concertazione è molto ‘italiana’, come quelle di Ferro e Kuhn: il suo è più morbido e tenero del solito. Altri aspetti musicali sono molti italiani e ricordano l’allestimento Pizzi-Ferro proposto alla Fenice nel febbraio 1993 (in occasione del centenario della morte di Wagner). Il protagonista non è un ‘tenore eroico’ dal timbro brunito ma un ‘tenore lirico’ con un volume generoso, l’americano Andrew Richards, con una vocalità simile a quella di Peter Hoffman (a Venezia) e di René Kollo (in varie esecuzioni). La deuteragostica femminile non è un soprano drammatico ma un contralto che può raggiungere un registro elevato (la svedese Anna Larsson) così come nel Parsifal veneziano del 1993 quando il ruolo è stato affidato all’americana Gail Gilmore Ottime la altre voci specialmente Gábor Bretz nel faticosissimo ruolo di Gurnemantz . Detlef Roth è Amfortas, Lucio Gallo Klingsor. Li ricordo negli stessi ruoli all’Accamedia di Santa Cecilia diretti da Daniele Gatti. Occorre elogiare i cori , da quello del Teatro Comunale diretto da Andrea Faidutti, a quello di voci bianche della scuola Alessandra Galante Garrone diretto da Alhambra Superchi.